4. Un fascicolo al Consolato

(Il capitolo precedente)

Berlino, 5 gennaio 1948

Illustrissimo Sig. Presidente,

perdonerà se mi permetto di scriverle certe cose che forse le daranno noia. 
La mia sincerità, onestà, come italiano all’estero, corretto sotto ogni rapporto, sono le ragioni che mi portano a dichiarare quanto segue: quest’oggi alle ore 12 meridiane, mi inviai ai suoi rispettabili uffici per un semplice paio di scarpe, avendo estremo bisogno da due mesi e fui trattato come un pezzente senza alcuna ragione.
Tutti possono testimoniare la mia condizione, senza un vestito e senza un paio di scarpe.
Non faccio nessuna cattiva azione, lavoro 13 ore al giorno. Non faccio cose di cattivo carattere, sono onesto, galantuomo in tutto.
Mi fa meraviglia che in un Ufficio della Croce Rossa, rispettato internazionalmente, esista del personale che tratta il loro sangue peggio dei cani.
Come ripeto, io sono stato molto corretto, senza offese altrui, e per la mia sincerità mi permetto di rivolgere un sentito reclamo alla vostra presidenza.
Ora faccio il cameriere, credo di essere un galantuomo e sono degno Italiano.
Io sono un baritono, prima non avevo bisogno, ma ella sa bene, ora siamo in cattive condizioni e tutti abbiamo bisogno.
Io penso per me stesso, non faccio propaganda, giunto a casa mi affretto a scriverle perché possa essere buono e cortese di farmi avere ciò che chiedo.
Mi vergogno, arrossisco a pensare di entrare in un ufficio da degno Italiano e di non essere nemmeno ascoltato.
Non siamo nel tempo del Fascismo, quando noi NON fascisti ci gettarono fuori. Ora siamo in una nuova era di fratellanza.
Perdoni ciò che scrivo, ma scrivo per avere almeno la riconoscenza d’aver ragione.

Ringrazio anticipatamente scusandomi di ciò.
Auguri, felicitazioni di buona salute per il Capo d’Anno.
Distinti saluti. In fede, mi creda.

M.G.
Berlin 65
***straße 10. 


Berlino, 12 gennaio 1948

Italian Red Cross
Area Team nr.1
US Headquarters
Berlin Command

Non ci sono scarpe della sua misura. Le consigliamo di scrivere una lettera, dichiarando la sua assoluta necessità.
I primi aiuti vanno a bisognosi, malati, vecchi, bambini.

Mi trovavo al Consolato Italiano di Berlino e non potevo credere a quello che avevo davanti.
Il gentile impiegato a cui era stato affidato il caso, tanto paziente con me al telefono e via mail, che aveva effettuato le prime ricerche e che ora mi aveva dato il permesso di accedere ai documenti riservati conservati dal Ministero degli Esteri, mi aveva anticipato “Guardi, Signorina, glielo dico già: si tratta di vecchie carte e pochi anni fa è stata fatta pulizia: è probabile che non sia rimasto niente”.
Quando mi aveva accolto all’entrata del Consolato, invece, sfoggiava uno strano sorriso di soddisfazione che non era riuscito a nascondere nemmeno mentre mi illustrava le meraviglie architettoniche dell’edificio consolare, bombardato e ricostruito in modo da evidenziare i danni subiti nel corso della guerra.
Mi aveva accompagnato ad una scrivania che era stata preparata appositamente per me e per le mie ricerche e mi aveva detto: “Buone notizie: non so spiegargliene la ragione, ma il fascicolo del suo bisnonno è scampato alla distruzione…ed è anche abbastanza corposo”

Appoggiata al piano di cuoio della scrivania, mi aspettava una cartellina verde che si era addirittura sfondata perché troppo piena.
Accarezzavo il dorso di quel fascicolo che recava il nome del mio bisnonno scritto con calligrafia di altri tempi, e già sentivo la polvere di quasi settant’anni che mi irritava le dita e mi faceva prudere il naso.
Adoro le fotografie in bianco e nero, i documenti con gli angoli consumati, la puzza delle carte rimaste per mezzo secolo ad aspettare, le lettere scritte a mano, i timbri e le macchie di inchiostro: ecco perché di fronte a quella pila alta due spanne, mi sembrava di aver appena ricevuto un meraviglioso regalo.

“Mi raccomando: è vietato fare fotografie o fotocopie. Se vuole, deve ricopiare tutto a mano”
La voce dell’impiegato mi fece ritornare alla realtà: non avevo moltissimo tempo e ora che avevo saputo che avrei dovuto decifrare sul posto scritte piene di riccioli e svolazzi e scriverle immediatamente, ne avevo ancora meno.
Decisi di adottare questa tecnica: ricopiare senza pensare, per poi cercare di rimettere ordine una volta arrivata a casa.

Se avessi avuto anche una minima idea del contenuto, non sarei stata così ottimista.
Il fascicolo del mio bisnonno era pieno di lettere commoventi, artefatte e disperate, sulla scia di quella riportata qui sopra, lettere che lui scrisse durante tutto il suo soggiorno tedesco, fino a pochi anni prima della sua morte avvenuta nel 1990.
Perché? Perché scappare dalla miseria dell’Italia per arrivare in Germania e vivere ancora peggio? Questo, ve lo anticipo, rimarrà un mistero.

Proprio mentre leggevo l’ennesima richiesta di aiuto e denaro rivolta a “Sua Eccellenza il Console Generale”, un documento color carta da zucchero attirò la mia attenzione.

Berlin 12.12.1945
Stamdesamt Berlin-Wedding

Der sänger M.A.G. wonhaft in Berlin **straße 11, geboren am **/09/1904
und
H.E.B. geborene M., geboren **/05/1909 in Berlin
…..

Anche senza chiedere la pronta traduzione del gentile impiegato, avevo capito.
Certo, il bisnonno si era risposato in Germania senza disturbarsi a divorziare dalla bisnonna con la quale aveva contratto matrimonio nel 1924 a Burano. Quello che avevo in mano era chiaramente il famoso atto di matrimonio, a causa del quale lui era stato accusato di bigamia e condannato a scontare un periodo di prigione.
Tutti conoscevano questa storia e tutti ricordavano la povera bisnonna che, credendo morto il marito – dato che non si faceva sentire dal 1938 – veniva chiamata a testimoniare la bigamia. Della serie: “Ho una notizia buona e una cattiva”.

No. Un attimo.

Qualcosa non tornava.
Tutti conoscevano la storia della seconda moglie e tutti affermavano con sicurezza che fosse nata a Londra. Se ne ricordavano perché l’avevano conosciuta negli anni ’70, quando lui si era deciso – dopo 40 anni – a far visita in Italia ai suoi figli.
Questa H.E., invece, era nata a Berlino e un sacco di date non tornavano.
Prima di tutto il bisnonno non era nato nel 1904 ma nel 1898 (e tra l’altro non si chiamava A. di secondo nome).
In secondo luogo, come mai tutti ricordavano di questa moglie inglese e si ricordavano di un matrimonio avvenuto negli anni ’60… ma non avevano pensato di confrontare le date?

La bisnonna era morta nel 1957. Il secondo matrimonio era, appunto, avvenuto negli anni ’60 (il **/5/1960, come mi dissero altri documenti che avevo scoperto dopo).
Perché mai condannare un vedovo per bigamia?

Per un paio di minuti, la mia testa rimase vuota, sebbene la soluzione fosse palese e scritta nero su bianco.
Era facile.

Il bisnonno si era sposato due volte.
La prima, nel 1945, con questa H. che mi guardava con le sue labbra vermiglie dalla fototessera allegata all’atto di matrimonio.
La seconda, nel 1960, con M.S. nata a Londra nel 1913.

Il fitto scambio di missive tra il Consolato Generale d’Italia a Francoforte sul Meno e il Comune di San Donà di Piave, avvenuto nel 1950 (ben 5 anni dopo il matrimonio!), dimostrava la mia supposizione: si richiedeva il certificato di matrimonio ancora valido e soprattutto il certificato di “esistenza in vita” della moglie italiana.
Era del 1951, invece, la sentenza con cui Marino (questa volta di professione “kellner”, cameriere) veniva condannato – dopo sua stessa ammissione di colpa – alla pena di 6 mesi con attenuanti, a causa della situazione sfavorevole – la guerra – al momento del fatto.
Infine, dopo una richiesta di “stato libero”, il 10 maggio del 1960 il bisnonno. si sposava con la famosa moglie inglese di cui tutti si ricordavano, una moglie che aveva una figlia di nome C. nata da un precedente matrimonio ma che non aveva avuto figli con il mio bisnonno.

C’era un altro nome da sistemare, quello di un certo H, un fantomatico figliastro conosciuto da uno dei figli legittimi del bisnonno, un personaggio di cui non riuscii a trovare alcuna traccia nella documentazione.

Di chi era figlio questo H?
Ipotizzando che fosse della prima moglie (era nato attorno al 1950), che cognome portava?
E soprattutto, era rintracciabile?

Il consolato stava per chiudere e mi rimaneva ancora mezzo fascicolo. Scattai un paio di foto di straforo e continuai a leggere.
(il capitolo successivo)

 

I miei libri del 2012

I miei libri del 2012

Finalmente è arrivato il momento dell’anno in cui si fanno le classifiche, i bilanci, i riassunti.
Anche il 2012 è stato un anno rivelatore, come il 2010 e il 2011. Ma di questo parleremo magari in un altro articolo.

Oggi non vi stupirò. Oggi sarò banale e vi parlerò semplicemente dei libri che hanno segnato il mio 2012: non sono dieci, non sono in ordine di preferenza, alcuni li ho recensiti altri no, e non per tutti ho delle motivazioni precise. Mi sono piaciuti, questo è quanto.

Ecco la mia selezione, utile anche se dovete fare dei regali di Natale. (c’è anche qualche mio consiglio)

“Sofia si veste sempre di nero” di Paolo Cognetti
“C’era un nocciolo nelle donne che era duro come la pietra, e nessun torto reclamava vendetta ai loro occhi, quanto l’orgoglio ferito
A chi lo regalerei? A mia sorella Martina.

“Milano Calibro 9”, “Venere privata” e “Racconti neri” di Giorgio Scerbanenco
Uno scrittore che ti fa semplicemente desiderare di essere un delinquente o un poliziotto degli anni ’50/’60/’70.
A chi li regalerei? A mio papà.

“Sei donne e un libro” di Augusto De Angelis
Questo giallo è come una partita a Cluedo: è avvincente, logico, incastra tutto alla perfezione e ti porta ad indagare assieme al Commissario, a rinchiuderti con lui nella sua stanza in Centrale, e ad analizzare tutto con ordine fino ad arrivare alla soluzione.
Che, per inciso, io non ho capito fino all’ultima pagina.
Elegante e desueto.
A chi lo regalerei? A mia mamma. 

“Questo bacio vada al mondo intero” di Colum McCann
“Dunque conosce la città, pensa lei. È già stato qui. Questo luogo appartiene anche a lui. Altra sorpresa. Ha sempre pensato che uno dei prodigi di New York è che, da ovunque tu venga, pochi minuti dopo l’atterraggio ti appartiene già”
A chi lo regalerei? Ad Alessio. Ho detto New York, ho detto tutto (però in realtà non glielo regalo perché è qui a casa sulla libreria).

“Anna Karenina” di Lev Tolstoj
Vabè. Non è che mi metto proprio io a fare la recensione di Anna Karenina. Anche perché non l’ho ancora finito. Perché lo inserisco nella mia lista sacra allora? Perché è un libro che ho iniziato -e abbandonato- quando abitavo a Parigi e finirò -spero- qui a Berlino. E perché prenderei a sberle Kitty e Lévin da quanto li detesto.A chi lo regalerei? A chi ha molto tempo libero e può gustarsi tutte le 850 pagine senza troppe interruzioni.

“Alla fine di un giorno noioso” di Massimo Carlotto
Ho intervistato Carlotto qualche anno fa (emozionata, intimidita e impacciatissima!) e lui -come persona oltre che come scrittore- mi ha colpito moltissimo (quanti superlativi in una sola frase, che bello). Ma non avevo letto niente di suo.
Poi ho letto questo libro e ho capito perché mi aveva colpito così tanto.
E adesso vorrei intervistarlo di nuovo.
A chi lo regalerei? A chi si è appassionato alla storia di Carlotto.

“Middlesex” e “The marriage plot” (“La trama del matrimonio”) di Jeffrey Eugenides
Eugenides è il mio scrittore contemporaneo americano preferito. Punto.
Anche se magari li hanno già letti, li consiglierei tutti alle mie amiche nuokers (o ex) Annamaria, Elena, Meg, Alice, Alessandra, Samantha, Alessia, Chiara, Elisa, Lucia…a tutte tutte, nessuna esclusa! Siamo tante eh!

“Extremely Loud and Incredibly Close” (“Molto forte, incredibilmente vicino”) di Jonathan Safran Foer
“I like to see people reunited, maybe that’s a silly thing, but what can I say, I like to see people run to each other, I like the kissing and the crying, I like the impatience, the stories that the mouth can’t tell fast enough, the ears that aren’t big enough, the eyes that can’t take in all of the change, I like the hugging, the bringing together, the end of missing someone […]”
…oh no, aspettate, anche Safran Foer è il mio scrittore contemporaneo americano preferito.
Attenzione: questo libro va regalato con attenzione, non sprecatelo con le persone sbagliate!
Io lo regalerei alla mia amica Valentina. 

“20 under 40: stories from The New Yorker” AAVV
Solo per averlo comprato da Strand, a New York.
A chi lo regalerei? A chiunque abbia il sogno della scrittura. 

“Miss Peregrine’s home for peculiar children” di Ransom Riggs
Sommate vecchie fotografie e fotomontaggi rudimentali ad una storia inventata a partire da queste immagini raccapriccianti.
Che cosa si ottiene? Un capolavoro.
A chi ama leggere oltre le parole.

Per tanti libri letti, tre ancora sul comodino.

“Central Park: an anthology” di Andrew Blauner
Perché è un regalo di Natale anticipato e perché Alessio mi conosce troppo bene.

“Europa molto amore” di Giorgio Scerbanenco
Perché è il frutto di una coincidenza che ha fatto sì che Michele (mio cugino) trovasse questo libro per caso in Lussemburgo e me lo portasse a Berlino.

“I misteri di Alleghe” di Sergio Saviane
Perché è il risultato di una storia davvero bella che ha come protagonista un altro Michele che vive a San Francisco e che ha deciso di farmi un bellissimo regalo.

PS: qui la mia selezione del 2011 

 

Una passeggiata con la neve

Una passeggiata con la neve

L’abbigliamento improbabile di chi non sa perché non ne ha mai vista così tanta .
La macchina fotografica che si riempie di neve ogni volta che la estrai dalla borsa, anche per qualche secondo.
Una passeggiata con i calzini bagnati e il berretto incrostato di ghiaccio. Una corsa che solleva nuvole bianche.
Un cimitero deserto e imbiancato dove quasi ci si sente intrusi perché il silenzio toglie il fiato.

Onestamente? Il momento più bello e emozionante da quando sono arrivata a Berlino.

 

PS: le foto quadrate sono di Alessio, le altre mie.

Appello al mio Babbo Natale misterioso

Appello al mio Babbo Natale misterioso

Ieri mi è successa una cosa bellissima.

Sono arrivata in ufficio e ho trovato un pacchetto sopra la mia scrivania.
Senza mittente.
Con un timbro postale di San Vito di Cadore (provincia di Belluno).

Con gli altri redattori di Nuok, abbiamo organizzato un Secret Santa.
Per chi non sapesse di cosa si tratta, in pratica si fa una lista di partecipanti, si fissa un budget e si stabiliscono -a estrazione- le accoppiate. Questo significa  che ognuno di noi ha ricevuto un destinatario, ma il mittente del regalo rimane segreto fino al momento dell’arrivo del regalo.

Ammetto di aver pensato che potesse trattarsi del mio regalo segreto, ma il fatto che il pacco fosse arrivato sulla mia scrivania senza mittente, mi ha imposto di aprirlo. Poteva trattarsi di qualcosa collegato al mio lavoro: non potevo proprio farne a meno. (e poi sì, sono curiosa e impaziente e probabilmente lo avrei aperto lo stesso!!!)

Dentro, due cose meravigliose, inaspettate e sorprendenti: un libro e un biglietto.
Beh, direte voi, capirai.

Eh no. Il punto è proprio questo: quel libro io lo cercavo da mesi e sembrava (o almeno, così mi avevano detto nella libreria della mia città) che fosse uscito di produzione ormai da molto tempo. Mi ero rassegnata a non leggerlo mai.
Chi sapeva che lo stavo cercando? Praticamente nessuno.

E il biglietto? Anche qui, due bellissime sorprese: un augurio che mi ha reso felice, orgogliosa e commossa allo stesso tempo, e una firma quasi illeggibile, che non corrisponde a nessuno dei possibili mittenti “segreti” del Secret Santa (inoltre, nessuno di loro -che io sappia- proviene da quella zona).


Ieri ho indagato, ho anche contattato i “micheli” che conosco  (mi sembra di leggere quel nome), ho confrontato le varie calligrafie, ma non c’è stato verso. Per me questo regalo rimane un intricatissimo mistero.

Se quindi leggerai questo articolo, misterioso Babbo Natale, prima di tutto ti chiedo scusa perché proprio non riesco a riconoscerti.
Poi scrivimi. Mi hai fatto un regalo perfetto e inaspettato e non so davvero come ringraziarti!

(e pensare che ormai avevo smesso di credere allo spirito natalizio. Oggi poi nevica tantissimo e sono tremendamente felice)

Sono ignorante e me ne vanto (tantissimo)

Sono ignorante e me ne vanto (tantissimo)

Ieri ho utilizzato l’espressione “ignorantia legis non excusat” e quello che ne ho ricevuto in cambio è stato un silenzio imbarazzato. Ho esternato il mio stupore e sono stata definita arrogante (e sai che novità) e mi è stato fatto l’elegante augurio di venire massacrata di botte dalla persona alla quale ho osato rivolgermi in questo modo così aulico e spocchioso.

Ora, a parte il fatto che “ignorantia legis non excusat” è una frase di uso comune e non un latinismo per pochi, a parte il fatto che -se anche non si conosce il latino- la frase è praticamente traducibile a suono, e a parte il fatto che mi si accusa di ὕβρις (tracotanza) perché mi piacciono i congiuntivi e chi parla in modo corretto (e sì, anche sottolineare con soddisfazione gli errori altrui, quello mi piace tantissimo), e a parte che -purtroppo- la maggior parte della gente non capisce (eh sì: il verbo è singolare perché il soggetto è “maggior parte” e non “persone”) mai l’ironia…a parte tutto ciò, oggi vorrei fare outing.
Che brutta parola: outing.
Orrenda.

Ma non divaghiamo.
So che stavate pensando di non poter sopravvivere a tutta questa -mia- intelligenza e cultura (attenzione: in questa frase si sta facendo uso di ironia), però devo davvero deludervi: anch’io sono ignorante in alcune cose.
Non ci credete, vero? Invece è proprio così.

Avete presente il libro “La morte non sa leggere” di Ruth Rendell da cui è stato tratto anche il film di Chabrol: “Il buio nella mente”, con una eccezionale Isabelle Huppert nella parte della protagonista? (Il film è stranamente all’altezza del romanzo)
Se non sapete di cosa sto parlando, oltre a consigliarvi di rimediare perché entrambi sono molto belli, vi descrivo brevemente la trama.
In pratica c’è questa famiglia molto ricca che si prende in casa una domestica (nel film Isabelle Huppert, appunto) che all’inizio sembra perfetta poi fa cose strane. Un esempio: la padrona di casa le lascia la lista della spesa, lei va al supermercato e compra tutt’altro. Episodi di questo genere.
Insomma, alla fine si capisce che la domestica è analfabeta e si vergogna talmente tanto di questo segreto che, quando la famiglia lo scopre, lei prende un fucile da caccia e stermina tutti.

Fine del libro/film.

Tutta questa premessa per introdurre il mio scabroso segreto: ecco, diciamo che con la matematica non sono molto in gamba. Incredibile vero? Sono così brava in tutto che non ci si crede! (Allarme! Allarme! C’è dell’ironia non autorizzata)
Eppure ho questo gene familiare, questa maledizione depentoresca che rende tutti i membri della famiglia totalmente idioti di fronte a numeri e strani ragionamenti. Per ironia della sorte, invece, mia mamma era la più brava in matematica della sua classe…assieme al mio professore di matematica del liceo. Lo stesso che, dopo un’interrogazione, una volta mi ha chiesto “Senti, ma tu hai delle ambizioni?”

Conosco le tabelline, so fare le addizioni, le sottrazioni e le moltiplicazioni (anche di tante cifre eh!)…ma le divisioni niente da fare. Se poi sono a più di una cifra, vabè, mi alzo e vado via.

Sì, avevo scordato di dire che qui si parlava di matematica base, di quella delle elementari.
Il resto della matematica, quel brutto periodo in cui mi facevano studiare coseni, equazioni e cose che tendevano a più infinito…quello neanche lo considero.
Da ex studentessa di liceo classico che ha affrontato i cinque anni di matematica, CHIMICA, fisica e altre brutte materie incomprensibili con arroganza (eh sì, questa volta proprio arroganza) e menefreghismo (insomma, io ho scelto il liceo classico, perché devo studiare ‘sta roba?), direi piuttosto che vado fiera di non ricordare NULLA di teoremi, leggi e corollari (anzi per dire la verità, i corollari li associo spesso al mondo floreale).
Sì. Forse il professore aveva ragione a chiedermi se avevo delle ambizioni.


[Qui di seguito: mia mamma che se non si fosse capito è un’insegnante (e non si chiama Graziano, ma chatta con me attraverso l’account di mio papà. Mamma, perché lo fai?) cerca di spiegarmi come calcolare le percentuali e io mi dimostro svogliata, maleducata e poco desiderosa di apprendere]

Ma non divaghiamo. Torniamo al mio problema e al modo in cui lo sto nascondendo disperatamente e con poco successo.
Dove lavoro, a volte mi capita di dover fare delle fatture. Per fortuna capita poche volte.
Se le fatture sono normali, allora tutto bene (come dicevo, le addizioni le so fare).
Se invece ci sono degli sconti, delle ritenute d’acconto e quindi delle PERCENTUALI DA CALCOLARE, allora diventa un problema.

Al massimo posso arrivare al 50%, ecco, quello sì.
L’altro giorno ho riempito un foglio di calcoli e procedure per calcolare il 10% di 100. Sì, è proprio vero. Credetemi. Sono idiota.

Come mi comporto quando si abbatte su di me la sventura delle percentuali? Semplice.
Scrivo in Skype al complice del mio segreto (Alessio) e gli chiedo di calcolare la percentuale per me.

Senza nessuna vergogna.

3. Facciamo un passo indietro

(Il capitolo precedente)

E poi più nulla, per circa un anno.

Nel settembre del 2010, quando avevo bussato alla porta dell’appartamento del mio bisnonno e avevo esplorato il cimitero, ero convinta che mi sarebbe bastato fare un paio di domande per scoprire tutto.
Come avevo potuto sottovalutare i settant’anni che erano trascorsi?
Bisognava assolutamente fare un passo indietro. Andare da chi poteva avere informazioni, date e nomi, e cercare di ricostruire in modo più o meno preciso almeno l’inizio della storia.
In questo ho avuto una doppia fortuna: in primo luogo, le persone migliori da intervistare – i tre figli del bisnonno – erano reperibili e disponibili. In secondo luogo, si ricordavano tutto.
Sì.
Si ricordavano tutto.
Il problema era che ognuno di loro si ricordava ogni avvenimento in modo diverso dagli altri due.
Sul pomeriggio trascorso a discutere con i tre fratelli G., potrei scrivere un libro a parte. Diciamo, come anticipo, che a un certo punto hanno addirittura litigato perché in disaccordo su un punto della storia.
Chi aveva ragione? Impossibile da stabilire.

Ma tutto questo è successo circa un anno dopo, quando cioè le avventure del bisnonno a Berlino erano abbastanza delineate e io stessa mi ero ritrovata a dover rivelare particolari scomodi della sua vita.
Particolari che nessuno sapeva. Nemmeno i suoi figli.

Certo, se non l’avevate già capito all’inizio, una cosa che non è mai mancata a questa storia è la confusione.
A cominciare dal cognome: si è mai sentito che nella stessa famiglia, di padre in figlio, il cognome venga scritto in due modi diversi?
In questa famiglia è successo. E il bisnonno, in particolare, non accontentandosi delle due versioni già esistenti (con una erre e con due erre) ha aggiunto un paio di originali interpretazioni teutoniche.

Ma sto divagando e vi avviso che succederà molto spesso.
Questa storia è così incredibile e intricata che più che un libro servirebbe una parete enorme per scrivere nomi e collegarli tra loro.

Torniamo all’inizio, o almeno proviamoci. Torniamo cioè al punto in cui decisi di intervistare la prima dei figli del bisnonno, quella che all’epoca era abbastanza grande da ricordarsi bene la cronologia dei suoi primi spostamenti.
Si dà il caso che la primogenita fosse proprio la mia nonna.
Questa storia continua quindi nel salotto di casa sua.

___

“Nel 1945 poi iniziavano a tornare i prigionieri dalla Germania…mia mamma andava tutti i giorni in stazione a vedere, ma lui non arrivava mai. Controllava addirittura le barelle dei feriti, ma niente da fare. Lui non c’era. Non sapevamo niente di lui. Siccome ci aveva promesso che sarebbe tornato, a un certo punto abbiamo creduto che fosse morto.
Anni dopo, poi, abbiamo scoperto che era ancora vivo perché mia mamma è stata chiamata dal Comune. Lui si era risposato, anche se aveva già una moglie, ed era quindi stato condannato per bigamia.”
(nda: la condanna per bigamia è avvenuta nel 1951)

Intervistare la nonna su una guerra vissuta in prima persona, portò inevitabilmente a delle divagazioni enormi su bombardamenti, sfollati, rifugi e nascondigli.
Non potevo chiedere di meglio: adoro ascoltare le storie realmente accadute e la nonna mi stava raccontando dei particolari della sua giovinezza davvero impressionanti.
Mentre ascoltavo di quando la loro mamma si era ammalata di polmonite ed era stata portata in un ospedale di fortuna e loro -i tre figli- erano rimasti soli ed erano stati trasferiti a Venezia da alcuni parenti, pensavo che se la nonna era nata nel 1929 e stavamo parlando di un periodo attorno al 1940, tutto questo accadeva quando lei era davvero ancora una bambina.

“Mi ricordo perfettamente che tutti e tre indossavamo zoccoli di legno: era notte fonda e per le calli di Venezia si sentiva solo quel rumore fortissimo. Poi siamo stati divisi, io sono stata portata a Burano e i miei fratelli per un periodo hanno vissuto in orfanotrofio. Sono passati circa sei mesi, la mamma è stata meglio -anche se soffriva di asma- e noi siamo tornati a San Donà, dove adesso c’è la bottega di C.
Lui era partito nel 1940, me lo ricordo bene perché siamo andati a salutarlo a Venezia. Nel 1943 poi è tornato ed è rimasto per un periodo qui, ha addirittura lavorato in un bar del centro (nda: faceva il cameriere, oltre che il cantante lirico).
Poi è ripartito di nuovo, prima dell’8 settembre, e non l’abbiamo più sentito.”

Che cosa aveva fatto il bisnonno una volta arrivato in Germania? Perché si era subito risposato, senza trovare il tempo di divorziare? La seconda moglie era tedesca? Era ancora viva? Avevano avuto dei figli?
Domande, per ora, senza risposta.
A quel punto, la cosa migliore da fare era ritornare a  Berlino e contattare il Consolato italiano.
Magari loro ne sapevano qualcosa.

(Il capitolo successivo)

La lettera di Fiona Apple

La lettera di Fiona Apple

Questa lettera è stata pubblicata ovunque, in inglese e in italiano.
Io l’ho letta ieri in tram e sì, lo so che dico sempre che mi commuovo in tram, però è la verità: ieri mi sono commossa in tram e in modo davvero imbarazzante.

La pubblico anch’io perché capisco.

Gaia e il suo sguardo di riprovazione: dove sei stata?

Ho un cane giallo –Gaia– che mi aspetta a casa e ogni volta che torno, anche se sono passati sei mesi, mi saluta come se niente fosse successo. E a me si spezza il cuore ogni volta che riparto, perché mi sembra di raccontarle una bugia.
Lei mica sa per quanto tempo non mi rivedrà.
Gaia è la mia amica più sincera -come dice Fiona- ed è stata sempre con me. Io invece sono andata via. (ma tra un mesetto ci vediamo sai?)

Pallino & Cleo

Avevo un cane prima di Gaia. Si chiamava Pallino.
Pallino è cresciuto assieme a me, perché nei primi ricordi della mia vita c’è già, ci siamo io e lui e qualcosa di meno importante sullo sfondo.
Prima di conoscere Pallino, ero molto molto timida (forse qualcuno dirà che era meglio così, ma secondo me no) e lui mi ha aiutato ad essere più naturale e a non avere paura di tutto.
Grazie a Pallino, ho iniziato a comportarmi come un cane e a fidarmi delle mie prime impressioni e del mio istinto. Che hanno sempre ragione.
Pallino è morto in silenzio, ha trascorso i suoi ultimi giorni nascosto dietro a una pianta della terrazza e la sua ultima notte -purtroppo- in una clinica per animali ammalati. Da solo.
Non perdonerò mai questa scelta a chi l’ha fatta, anche se pensava di agire per il meglio.

Il giorno della morte di Pallino io sono tornata da scuola (ero all’ultimo anno di liceo) in bicicletta senza sapere ancora nulla, ed ho capito tutto quando ho visto mia sorella Martina che guardava dalla finestra aspettando che arrivassi.
Sono salita a casa, ho chiesto “Allora come sta?”. E nessuno ha risposto.

E poi c’era Cleo, la gatta colorata che dopo la morte di Pallino ha consolato tutti.
E dopo meno di un anno, anche lei ci ha lasciato, in silenzio, nascosta sotto un letto.
Io ero già all’università e anche in quell’occasione ero assente.

E per un po’ siamo rimasti da soli.

Fiona Apple ha un cane ammalato, Janet, e ha deciso di interrompere il suo tour per stare accanto a lei.
Non ascoltavo la sua musica ma inizierò presto, perché sono sicura che mi colpirà così come hanno fatto le sue bellissime parole.

Del resto, quando un essere umano arriva a capire che gli animali sono migliori degli uomini sotto tutti i punti di vista, diventa come me e non può che piacermi tantissimo.

Brava Fiona, sei una persona che vorrei incrociare sulla mia strada.
Buona lettura.

Sono le sei del pomeriggio e sto scrivendo a poche migliaia di amici che non ho ancora incontrato.
Sto scrivendo per chiedere loro di cambiare i nostri piani e incontrarci un po’ più tardi.
Il motivo è questo.
Ho un cane, Janet, è malata da quasi due anni a causa di un tumore latente nel suo petto, che è cresciuto lentamente. Ha quasi 14 anni. Ce l’ho da quando aveva quattro mesi. All’epoca avevo 21 anni, ero ufficialmente adulta, e lei era la mia bambina.
È un pitbull, è stata trovata a Echo Park con una corda al collo e morsi sulle orecchie e la faccia.
Era usata nei combattimenti tra cani per dare fiducia agli avversari. Ha quasi 14 anni e non l’ho mai vista iniziare una lotta, mordere qualcuno o persino ringhiare, e posso capire perché è stata scelta per quel ruolo. È una pacifista.
Janet è stato il legame più duraturo della mia vita adulta, è un dato di fatto.
Abbiamo vissuto in molte case e siamo entrate a far parte di alcune famiglie, ma in realtà siamo sempre state io e lei.
Lei ha dormito nel mio letto, la sua testa sul mio cuscino, e ha accolto la mia faccia in lacrime isteriche sul suo petto, circondandomi con le zampe, ogni volta che il mio cuore si è spezzato, il mio spirito fiaccato o soltanto perso, e col passare del tempo sono diventata io la figlia, mentre mi addormentavo con il suo mento appoggiato sulla mia testa.
Stava sotto il pianoforte mentre scrivevo canzoni, abbaiava ogni volta che cercavo di registrare qualcosa ed è stata in studio con me tutto il tempo mentre registravamo l’ultimo disco.
L’ultima volta che sono tornata alla fine di un tour era vivace come sempre, è abituata a me che me ne vado per poche settimane ogni sei o sette anni.
Ha il morbo di Addison: per lei viaggiare è pericoloso perché ha bisogno di iniezioni regolari di cortisolo, perché reagisce allo stress e all’eccitazione senza gli strumenti psicologici che trattengono molti di noi dall’andare letteralmente nel panico.
Nonostante tutto questo, è spontaneamente gioiosa e giocherellona e ha smesso di comportarsi come un cucciolo soltanto tre anni fa.
È la mia migliore amica, mia madre, mia figlia, la mia benefattrice ed è lei che mi ha insegnato cos’è l’amore.
Non posso venire in Sudamerica. Non adesso.
Quando sono tornata dopo l’ultima parte del tour americano, è stato molto molto diverso.
Non aveva neanche più voglia di camminare.
Lo so che non è triste per la vecchiaia o la morte. Gli animali hanno l’istinto di sopravvivenza, ma non hanno il senso della mortalità e della vanità delle cose. Per questo sono molto più presenti delle persone.
Ma so che si sta avvicinando al punto in cui smetterà di essere un cane e diventerà, invece, parte del tutto. Sarà nel vento, nella terra, nella neve e dentro di me, in qualunque posto vada.
Non posso lasciarla proprio adesso, cercate di capire.
Se me ne vado di nuovo, ho paura che morirà e non avrò l’onore di cantare fino a farla addormentare, di accompagnarla mentre se ne va.
Qualche volta impiego venti minuti per scegliere quali calzini indossare a letto.
Ma questa decisione è stata istantanea.
Ci sono scelte che facciamo, che ci definiscono.
Non sarò la donna che mette la sua carriera davanti all’amore e all’amicizia.
Sono la donna che sta a casa e cucina per la sua amica più vecchia e cara.
E la aiuta a stare bene, la conforta, la fa sentire al sicuro e importante.
Molti di noi temono la morte di una persona cara. È la triste verità della vita, che ci fa sentire impauriti e soli.
Vorrei che potessimo anche apprezzare il tempo che c’è prima della fine del tempo.
So che sentirò la più travolgente conoscenza di lei e della sua vita e del mio amore per lei, negli ultimi momenti.
Ho bisogno di fare l’impossibile per trovarmi lì per questo.
Perché sarà l’esperienza di vita più bella, intensa, arricchente che ho vissuto finora.
Quando morirà.
Così resterò a casa e la ascolterò russare e respirare pesantemente, a godermi il respiro più puzzolente e più brutto che sia mai provenuto da un angelo.
Vi chiedo la vostra benedizione.
Ci vediamo,
Con affetto,
Fiona

2. I cimiteri

2. I cimiteri

(Il capitolo precedente)

A me piacciono i cimiteri perché mi piacciono le storie. Non la Storia, quella con la esse maiuscola che si studia a scuola. Le storie. Le vite, anche piccole e brevi, che sono scritte o solo suggerite su alcune lapidi.
Mi piace “leggere” quelle storie, anche se sono solamente accennate con un “figlia, moglie e madre”. Mi piace calcolare l’età del defunto e chiedermi se quel giorno di novembre del 1864 c’era la nebbia.

Adesso non si usa più, purtroppo. I cimiteri sono diventati banali: i parenti dei morti del ventunesimo secolo preferiscono un angelo piangente e terrificante piuttosto di un paio di righe sul loro parente defunto. Del resto, chi si fermerebbe a leggere informazioni su uno sconosciuto?
Io, per esempio.



I cimiteri mi piacciono, l’ho già detto, e appena capito in una città nuova mi informo subito per andarne a visitare almeno uno.
Grazie a questa passione, ho fatto una scoperta, per dire la verità neanche tanto sconvolgente: i cimiteri sono molto diversi, a seconda del paese in cui ci si trova.
I camposanti italiani sono colorati e confusionari, con le loro statue e le fotografie, mai viste su tombe “straniere”. A volte, sembra quasi di trovarsi in un lugubre mercato dove i defunti sono impegnati in una gara silenziosa per farsi notare dai passanti.
I cimiteri francesi, quelli molto famosi di Parigi ad esempio, sono oscuri e decadenti e per nulla curati. Le tombe molto vecchie sono sfondate o mezze scoperchiate, le “casette” -quelle dove trova posto anche un’intera famiglia, per intenderci- hanno le porte arrugginite e scardinate. A Père-Lachaise, alcune zone sono colonizzate da gatti randagi e la presenza diffusa di fiori marci e ragnatele, fa quasi venire il dubbio di trovarsi in un paesaggio artificiale, creato per un film o per un parco di divertimenti. I cimiteri parigini sono suggestivi e ogni tomba ha una sua storia, raccontata attraverso un’incisione o una statua ricoperta di muffa.
Un giorno, mentre cercavo senza successo la tomba di Maria Callas, ho avuto l’immensa fortuna di incontrare un vecchietto, che non solo mi ha indicato dove si riposava il celebre soprano, ma per il resto del pomeriggio mi ha fatto scarpinare in lungo e in largo, raccontandomi storie commoventi su persone che lui conosceva, e dilungandosi in paurose leggende di fantasmi e morti apparenti.
Questo vecchio, che non si è nemmeno sognato -fortunatamente- di portarmi tra la folla a vedere la tomba di Jim Morrison, ha contribuito ad alimentare la mia funerea passione ed ha sicuramente decretato il vincitore nella mia personale classifica dei cimiteri.

Recentemente ho visitato un cimitero svedese, quello dove è sepolta la divina Greta Garbo, e l’ho trovato pulito, essenziale e “di design”. Certamente un bel luogo dove rilassarsi e leggere un libro, ma non la cornice adatta per farsi rapire dalla magia delle storie del vecchietto di Père-Lachaise.
Ho visto anche un cimitero neozelandese, solo in fotografia, e mi è sembrato il luogo ideale dove sedersi a guardare l’orizzonte e la natura prepotente di quel paese.
Quando penso che tra le mie più grandi -immotivate- paure, ci sono un’invasione dei morti viventi e essere sepolta viva, mi rendo conto che non so spiegarmi l’origine di questa passione. Forse provo per i cimiteri la stessa attrazione morbosa che ci porta a guardare i film del terrore con le mani davanti agli occhi, ma con le dita aperte per spiare?

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Mentre mi addentravo nel cimitero comunale di Wittenau, quartiere popolare di Berlino Ovest a ridosso del muro, riflettevo su questo e soprattutto prendevo atto del mio errore di valutazione sui cimiteri tedeschi. Seguendo la logica stereotipata costituita dalla mia -scarsa- conoscenza del popolo tedesco, mi aspettavo una spianata rigida, ordinata e cementata che, mi dicevo, avrebbe certamente facilitato la mia ricerca.
Niente di più sbagliato: se questo era un prototipo di camposanto teutonico, allora avrei dovuto cambiare totalmente il mio punto di vista.
Mi trovavo in un posto irreale, pieno di alberi, piante e fiori. Verde, selvaggio e ombroso…altro che squadrato. Chi l’avrebbe mai detto?

Le tombe apparentemente non seguivano nessuna logica e sembravano gettate alla rinfusa come una manciata di dadi da gioco. In alcuni punti il cimitero era sovraffollato, in altre zone non si vedeva che una piccola lapide mangiata dal tempo in mezzo ad un prato dove erbacce e arbusti selvatici avevano preso il sopravvento.

All’entrata, avevo bussato invano alla porta di quello che presumevo fosse l’ufficio del guardiano, poi mi era venuto in mente che era domenica e che non avrei trovato nessuno a cui chiedere informazioni.
Ma ormai ero arrivata fino a lì e dovevo come minimo fare un tentativo: chi mi diceva che, passeggiando, non mi sarei imbattuta per puro caso nella tomba del mio bisnonno?

Mi addentrai in quella selva, accompagnata da un deciso senso di inquietudine. Mi guardavo continuamente alle spalle, convinta di aver intravisto qualcuno passare velocemente tra gli alberi.
Il cimitero era deserto.
Continuai a camminare, scorrendo velocemente i nomi scritti sulle lapidi, compito reso più difficile dal loro ordine casuale: fui costretta a scavalcare piccole siepi, attraversare passaggi quasi inaccessibili tra alberi e muri costruiti senza un’apparente ragione.
Trascorsi un paio d’ore tra marmi neri e caratteri dorati, prima di ammettere che avevo fallito di nuovo. Quello che stavo cercando di fare era semplicemente impossibile.
Per quel giorno ne avevo abbastanza. Decisi di lasciar perdere. A malincuore però, perché ero convinta che l’ultima dimora del mio bisnonno si trovasse a pochi metri da me, proprio dietro quell’albero oppure dopo quella curva.

Continuai ancora per un po’, con in testa l’idea che se “audentes fortuna iuvat”, allora io ero a buon punto, quando mi imbattei su una cosa così macabra, che mi convinsi ad andarmene senza più ripensamenti.
Davanti a me, in un piccolo prato recintato da una staccionata di ferro battuto, una tomba apparentemente uguale alle altre. Un particolare stonava terribilmente: accanto al nome del “proprietario” e alla sua data di nascita e morte, un altro nome femminile, la sua data di nascita ma nessuna morte ancora registrata.
Una tomba aperta in attesa, “finché morte non vi separi”? Una moglie scomparsa, un cadavere mai ritrovato e un decesso incerto?
Qualunque fosse la spiegazione, cercai velocemente l’uscita e decisi che mai e poi mai mi sarei ritrovata ancora una volta da sola in quel luogo terrificante.


PS: le foto di questo capitolo sono state scattate da Alessio in un cimitero molto bello a Greifswalderstraße (di cui non sono riuscita a trovare il nome). Purtroppo, il giorno in cui ho visitato il cimitero di Wittenau, ho scordato di scattare foto!

(Il capitolo successivo)