Che cosa tiene accese le stelle (M. Calabresi)

Ho ricevuto questo libro in regalo da due ospiti di passaggio a Berlino ed è stata una graditissima sorpresa, dato che da poche settimane avevo terminato “Spingendo la notte più in là. Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo”, sempre di Mario Calabresi.

“Che cosa tiene accese le stelle” mi è piaciuto. Fine del tema.
No dai, scherzo.

Perché mi è piaciuto? Ok, vado con ordine:

Prima di tutto perché racconta storie di Italiani “che non hanno mai smesso di credere nel futuro”, Italiani illustri come Umberto Veronesi e Franca Valeri, e altri Italiani che hanno realizzato il proprio sogno all’estero, e con i quali -ovviamente- mi sento più affine. Mi piacciono questi Italiani perché sono forti e intraprendenti e rappresentano quella “fetta di popolo” a cui io voglio appartenere, anche se non diventerò famosa o non realizzerò i miei sogni.

Il secondo motivo per cui mi è piaciuto “Che cosa tiene accese le stelle”? La perfetta definizione dell’Italiano che NON mi piace.
Una constatazione, che riporto per intero perché coincide esattamente con la mia opinione.

La cultura della lamentela in questi anni  ha raggiunto livelli terribili, è la cosa più negativa che ci sia, perché cancella davvero ogni possibilità di riscatto e cambiamento. Innamorarsi delle proprie sfighe è rassicurante e ti fa vivere in un territorio protetto, in un mondo che riconosci e ti rassicura. Ogni epoca impone una forma di resistenza, la nostra è non essere lamentosi.
Terzo motivo perché mi è piaciuto questo libro.
Il motivo più importante: la storia di Mario Calabresi verso la sua affermazione come giornalista, storia che inizia con queste parole: “La frase che sento pronunciare di più negli ultimi anni è: non si può fare”.
Ho letto le avventure, le delusioni, i tentativi e successi del giovane fresco di scuola di giornalismo che si è scontrato con i “dinosauri” che lo volevano convincere che per lui non c’era posto, ho letto della sua perseveranza e della sua intraprendenza. E infine, ho letto del suo successo.
Ho letto tutto ciò mentre tornavo a casa in tram, dopo una giornata per me abbastanza “dura”, una giornata in cui un famoso settimanale italiano che mi aveva commissionato un articolo facendomi lavorare per due mesi, correndo su e giù per Berlino a mie spese a intervistare persone, promettendomi un pagamento che non è mai arrivato e mai arriverà, mi aveva fatto capire (senza dirmelo, semplicemente ignorando le mie mail) che “per me non c’era posto”. Che “non si può fare”.

Ho letto la storia di Mario Calabresi, mi sono commossa (in tram, sì, non è neanche la prima volta che mi succede), sono tornata a casa, l’ho riletta. Ho aspettato Alessio e l’ho riletta a voce alta anche a lui, interrompendomi in qualche punto perché per l’emozione la voce mi si rompeva.

Forse è stato un caso. Quel giorno, avevo deciso che “per me non c’era posto”, poi la storia di Calabresi mi ha convinto che c’è posto per tutti, tranne per quelli che si lamentano e che pensano che “non si può fare”.

Per questa testimonianza, per l’iniezione di fiducia che ne è derivata e per le macchinazioni del destino che ha voluto che io leggessi proprio quel capitolo quando ce n’era bisogno, grazie.