Farfalle in un lazzaretto (C. Ronzullo)

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Ogni volta che chiudo un libro, lo sapete, io sono un po’ triste.
Un libro che finisce è un buon amico che fa la valigia e se ne va. Il minimo che puoi fare è salutarlo come si deve.
Questo libro, come tanti altri, l’ho finito sul tram dalle parti di Frankfurter Allee e ho trascorso il resto del tragitto fino a casa, guardando senza guardarlo il buio fuori dal finestrino e cercando allo stesso tempo di scrutare oltre al riflesso pallido della mia faccia.
Sapevo di aver appena assistito (sì, io ero dentro le pagine a guardare, non semplicemente a leggere) ad una storia d’amore dolorosamente e consapevolmente malinconica e incompleta. Ho “sentito” il rimpianto futuro dei due protagonisti e me ne sono dispiaciuta. Tanto.
“Farfalle in un lazzaretto” di Camilla Ronzullo (sì, proprio quella di Zelda was a writer) è come una melodia che inizia calma con un pianoforte, poi cresce, diventa impetuosa e si arricchisce di altri strumenti, per tornare infine sola, triste e bellissima.
Il libro di Zelda (per una volta la voglio chiamare così), è un libro anche pungente che mi ha fatto ridere, a volte pure con amarezza. Un esempio: l’assurda e tragicomica prima riunione degli scrittori “pazzi” che, assieme ai loro amici immaginari, a me hanno ricordato i “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello.
E con questo, assieme al mio sconfinato amore per l’autore siciliano, direi che vi ho fatto capire che cosa ne penso di questo libro.
È naturalmente implicita la mia esortazione a leggerlo prima possibile

Sono le 7.45 ed entrambi sono pronti dalla sera prima: hanno dormito talmente poco da non sentire la differenza tra un giorno finito e uno appena iniziato.

Pensò a quanto gli piaceva guardare le parole ancora prima di comprenderne il senso. La scrittura era la graduale scoperta di un corpo sinuoso e pieno di incognite.

-Sono un egocentrico schiavo della parola. 
[…] Sento di essere votato alla scrittura e che non riuscirò a impegnarmi in nient’altro. È una schiavitù totalizzante e magicamente salvifica che pensavo di avere perso. In realtà il fatto di condividere storie e di sentire che non sono il solo a lottare contro la solitudine, la paura, i cambiamenti d’ispirazione e la tremenda eventualità che non si venga affatto compresi, mi ha dato maggiore forza e penso che stanotte tornerò a varcare la soglia di quello che io chiamo lo studio delle parole.

Capita così con i libri. Capita che si passi un’intera esistenza a lagnarsi di non aver vissuto altre tre vite contemporaneamente e che poi ci si ritrovi in mano un rettangolo di carta stampata, capace di descriverci meglio di quanto saremmo mai riusciti a fare noi stessi. Le parole cesellano esistenze multiple e vengono dai remoti angoli di un passato condiviso e ancestrale.

Siamo di dove vogliamo essere, del piccolo spazio vitale a cui fino a ieri non avremmo dato un soldo bucato, siamo di quelle libertà che studiate a tavolino ci erano parse odiose costrizioni. Apparteniamo ai ritmi più fuori sincrono, ai tempi in perenne ritardo, alla dannata fatica dell’esserci, al miracolo di provarci.

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Aggiungiamo due tasselli.

Ieri ho conosciuto Camilla, l’autrice di questa storia preziosa, ho trascorso con lei una manciata di ore di discorsi “ad albero” interminabili sulle nostre passioni e sui nostri progetti e sulle coincidenze che fanno incrociare le strade delle persone.
Camilla è esattamente come il suo libro: inaspettata e travolgente.

Secondo tassello: è stato il mio Alessio a farmi conoscere Camilla, e sempre Alessio, poco tempo fa, ha avuto una bellissima idea: ha chiesto a Camilla di rispondere qualche domanda. Ci è sembrato carino pubblicare le risposte assieme alla recensione del suo libro.
Eccole qui. Vi faranno sorridere e stare bene.

Presentati, dicendo qualcosa di NON vero ma che hai sempre sognato di dire in una intervista ufficiale.
Sono molto magra anche se mangio tantissimo. Merito del mio metabolismo.

Ti consideri una sognatrice? Cosa sogni?
Mi considero un sognatrice compulsiva! Da quando sono nata, ho ventilato progetti di ogni forma e colore. Il mio picco di sogno si è attestato sull’incrollabile convinzione che prima o poi avrei sposato l’Orson Welles di Citizen Kane. Peccato che Citizen Kane fosse solo un film e che all’epoca del mio innamoramento Orson fosse già defunto.
La mia sfida più grande è stato lavorare sull’energia dirompente del sogno, tentando di non disperderla.
Il rischio di chi sogna troppo è quello di crearsi una dimensione parallela perfetta in cui agire solo nelle ipotesi: un acquario multicolore dalle pareti sottili che se ne infischia della gravità e dei limiti imposti da tempo e spazio.
Da qualche anno sono sono uscita dall’acquario: penso e tento di fare. Con pochi mezzi, accontentandomi di risultati imperfetti.
Oggi un progetto che mi cresce tra le mani e diventa realtà mi sembra un miracolo, una cosa per cui commuoversi o invitarsi fuori per una pinta di birra.
Sono certa che la Sirenetta sarebbe d’accordo con me.

Che rapporto hai con la paura di fare qualcosa che sai ti porterà fuori dalla tua comfort zone?
Sono una temeraria della sperimentazione creativa, adoro mettermi alla prova, adoro avere un’intuizione balzana e tentare in ogni modo di porla in essere. Mi piace imparare, trasferirmi in altri contesti professionali, capire che tutto contribuisce al mio istinto di costruzione. Che tutto lavora per il mio tessuto interiore. Se penso al mio cammino professionale, non credo di avere mai avuto paura di tentare l’azzardo, di uscire dalla comfort zone. Invece, per quanto riguarda il mio spazio vitale (quello dove appoggio i piedi, per intenderci), sono tragicamente legata: ho bisogno delle mie certezze, del mio nido, del dorso del libro impolverato che attende di parlarmi.
Sono un orso. Un orso travestito da ballerina. Ogni tanto ballo, ogni tanto mi eclisso. Il mio libro “Farfalle in un Lazzaretto” finisce con una frase che dice circa così: siamo di dove vogliamo essere, tutto il resto è geografia della scusa. Diciamo che sto pungolando le mie instancabili pigrizie e che, al momento, lavoro alacremente per incrementare la mia estensione spaziale.

Hai pubblicato un libro “Farfalle in un lazzaretto”. Cosa ti ha spinto a scriverlo?
Un inesauribile bisogno di dire. E poi una passione viscerale per la scrittura.
C’erano due esseri – poi sono diventati Marco Robustelli e Agata Lorenzi – che continuavano ad abitarmi la mente.
Li seguivo nei loro percorsi: erano famosi e promettenti ma qualcosa li frenava, rendendoli infelici e votati alla cristallizzazione dei loro intenti. Avevano questa strana pretesa di rendere la loro un’esistenza da romanzo. Perfetta, esteticamente ineccepibile, in perenne attesa del colpo di scena, del lieto fine.
La loro ingenuità mi offendeva, arrivava a ferirmi ma sempre, sulle ultime battute di un qualsiasi periodo, mi muoveva una tenerezza difficile da dipanare. Ho deciso di vedere come andava a finire e così ho scritto senza posa.
Mentre la tragedia s’insinuava tra Marco e Agata – rendendoli personaggi sfuggenti, assenti a se stessi – una serie di grasse risate sporcava la vita di tutti gli altri personaggi che abitavano il loro libro.
E così, come spesso capita ai miei giorni: il tragico è stato un ottimo pretesto per ridere.

Quando entro in libreria, ci sono miliardi di libri. Cosa dovrebbe spingermi a leggere il tuo?
Forse il fatto che in libreria non lo troverai perché si tratta di un progetto totalmente indipendente.
Si tratta di un primo timido tentativo di espressione, ma è la prova tangibile di quanto quello che “vorremmo essere” sia a portata di mano. Ci convinciamo che il cammino per la nostra felicità proceda lungo tappe sancite da chi è passato prima di noi e ha vinto. Non ci rendiamo conto della bellezza dei controviali, delle strade meno battute.
Con questo libro, imperfetto e mancante, ho realizzato il mio sogno di diventare scrittrice. Non conta che campeggi nelle vetrine delle librerie più famose o che sia in classifica sui principali quotidiani nazionali. Conta che io l’abbia prodotto, che rappresenti la mia più intima intenzione.

Consigliami tre libri da leggere e perché.
Penso ai primi che mi vengono in mente, perché sono totalmente incapace di stilare liste, quando si parla di libri!
L’Isola di Arturo di Elsa Morante: perché l’Isola è un’esperienza mistica, che consiglio a tutti.
Tutto quello che trovi di Gina Lagorio. Una donna impegnata, ispirante e concreta. Meravigliosamente umana, al servizio costante e innamorato della sua scrittura.
“Venere Privata” di Scerbanenco: perché con lui potrai respirare la mia aria, la stessa che ogni mattina mi fa passare sotto la casa di Duca Lamberti, chiedendomi a che piano abiti.

Musica: tre gruppi/cantanti che ti piacciono e perché.
Siouxsie and the Banshees, perché mi sono sempre sentita come Christine: a volte una Strawberry Girl, a volte una Banana-split Lady.
I Litifiba dei 17 Re, perché mi hanno fatto sentire grande e impegnata.
Malika Ayane, perché sono fermamente convinta che la sua voce abbia spesso fatto il solletico alla pancia del Divino.

Ti seguo da un po’ di tempo, e trovo bello vedere il tuo tocco personale su ogni cosa che fai, nei social, nel tuo blog. Spesso guardando altri blog, vedo solo copie di altri siti, e zero creatività. Che cos’è per te la creatività?
Linfa, sorriso, intuizione, rilassatezza e ricerca. La creatività è un serio allenamento al mio mondo bambino.

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Credits: acasadicindy

Arte. Che definizione associ a questa parola?
Sono di scuola benjaminiana, è il caso di premetterlo.
Walter – insieme a Orson, Arthur (Rimbaud) e Jean (Vigo) – è uno dei miei padri putativi, se vuoi un giorno ti parlerò delle mie madri.
Consiglio a tutti la lettura de “L’Opera d’Arte nell’Epoca della Sua Riproducibilità Tecnica“, un saggio rivoluzionario scritto negli anni ’30 che, una sessantina di anni più tardi, mi cambiò totalmente la vita, da tanto era attuale e vero.
L’opera d’arte potrà venire riprodotta miliardi di volte ma quello che la rende tale sarà sempre “l’apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina”. L’aura di Benjamin, l’hic et nunc di ogni anelito creativo, mi mette in pace con questi tempi ipertrofici perché, per quanto la riproduzione possa allontanarmi da lei, se osservo un quadro o ascolto una sinfonia, io sento intimamente questo richiamo primordiale, qualcosa di atavico e necessario.
L’arte è l’espressione di un magico qui e ora che per, quanto lontano nel tempo, nello spazio e negli intenti, mi si fa prossimo, mi provoca sentimento fisico, mi riempie o mi svuota. Esiste l’intuizione creativa, ma non si può parlare d’arte senza la sua fruizione. Il pittore si confronta con l’occhio che lo giudicherà, lo scrittore con quello che lo leggerà. Non trovo sia limitante, lo trovo un esercizio di umanità.

Tu collabori spesso con le Funky Mamas e viceversa. Cosa ti piace di loro?
Adoro le Funky Mamas. Le ho conosciute sul mio blog: avevo chiesto ai miei tre lettori di allora se avessero voglia di farsi avanti, di organizzare un piccolo giveaway, una piccola occasione di coccola corale.
Risponde una certa Justine che mi dice: io vorrei darti una mia creazione. Ci scambiamo alcune mail, ci mettiamo d’accordo e diventiamo amiche.
Quello che mi piace di loro, di Justine e Chiara, è l’attenzione costante allo spazio degli altri. Sono vere, coinvolgenti e appassionate. Sono curiose e rispettose. Hanno calzato mocassini di moltissime persone e, tra lacrime e maniche alzate, si sono poste degli obiettivi di realizzazione personale che hanno sempre contemplato la presenza di altri progetti, di altre speranze.
Con loro ho la sensazione di sentirmi parte di un gruppo, di una piccola azione leggiadra ma non meno volitiva. Mi piace il sentimento di tatto e sole che mi trasmettono, il godimento infinito di risate reali, di progetti mirabolanti.

Sono sempre più convinto che ci vogliano più persone fuori di testa per rendere questo mondo un posto migliore. Che ne pensi?
Io penso che conti l’allenamento costante e infaticabile a nuovi punti di vista.
Se fossimo allenati a capire le ripercussioni dei nostri gesti sugli altri, se ci fosse chiesto uno sforzo d’immedesimazione, se ci venisse insegnato che la furbizia delle cose facili molte volte mina solamente il nostro cammino interiore… beh, io credo che sarebbe tutto più stimolante.
Non facile, non risolto. Solo più stimolante.

Ultima domanda: qual è la cosa che più ti fa incazzare?
Detesto la maleducazione. Tempo fa, nei miei anni più rivoluzionari, pensavo che la “buona creanza” fosse espressione di uno sterile manierismo, ora la trovo un punto di partenza interessante.
Se penso a tutte le volte che mio padre mi incalzava: “Come si dice, Camilla?”, “Si dice grazie”, “Si dice prego”, “Saluta la Signora”, “Tieni la porta al Signore”, “Stai composta”.
Ora, ti devo confessare che a tavola continuo a sedermi scomposta, ma trovo sia utile l’approccio solare e bendisposto dei miei grazie, dei buongiorno e dei mi scusi. Ho scoperto che la gente è disarmata di fronte al mio allenamento al sorriso, in un certo senso è come se fosse più abituata alle porte in faccia.
La mia educazione mi fa capire quando tacere, mi spinge a farmi delle domande e a godere di certe risposte.
Secondo me, i prossimi rivoluzionari si faranno avanti a colpi di sorriso.