Il posto migliore dove leggere un libro

Oggi, giornata di grandi pulizie. Ho sistemato l’armadio perché ogni volta che lo aprivo, mi vomitava addosso vestiti appallottolati, stropicciati e talvolta minacciosi e, già che c’ero, mi sono avventurata nei meandri del mio vecchio Mac per buttare via un po’ di roba che non mi serviva più.
Grosso errore. Riordinare è sempre un grosso errore.
Nel caso dell’armadio, perché mi sono messa inutilmente a catalogare le magliette in ordine di colore (inutilmente perché domani sarà di nuovo tutto per aria), in quello del computer perché ho ritrovato tante di quelle cose (foto, inizi di libri, articoli…) che in realtà alla fine non sono riuscita a fare niente. Mi sono messa a leggere e rileggere e ciao. Quattro ore così, a perdere tempo.

No, dai, non è vero. Non ho solo perso tempo.
In realtà, mi sono un po’ emozionata perché ho ritrovato alcuni racconti brevi nei quali mi ero cimentata un bel po’ di anni fa. Cara, che tenerezza.
Avevo addirittura fatto una raccolta intitolata “Storie d’insonnia”, poiché scrivevo di notte, quando non riuscivo a dormire. L’avevo spedita a molte case editrici che, gentilmente, avevano declinato la mia proposta.
Tutte tranne due:
-quella che, dietro pagamento di una cifra consistente, era ben felice di pubblicare il mio libro “Storie di FOGNA”. Di fogna? (case editrici mercenarie e interessate solo al profitto, almeno non potreste cercare di ricopiare giusto il titolo delle opere che vi mandano?)
-quella che era entusiasta della mia opera, in particolare del racconto intitolato “In the sky with diamonds” nel quale -mi dicevano- erano riusciti a cogliere il richiamo alla canzone dei Beatles. Volpi, insomma.
Dopo avere, a mia volta, gentilmente declinato l’offerta di questi signori, avevo messo tutti i racconti in un cassetto (non è vero niente, era una cartella di dropbox) e me ne ero dimenticata.

Fino ad oggi.
Li ho ritrovati, li ho riletti, mi sono esibita in un raro auto-abbraccio consolatorio (come se, adesso fossi una scrittrice affermata prodiga di consigli verso il mio giovane alter ego – in realtà non è cambiato niente) e ho pensato che fosse simpatico rendervi partecipi di qualcuna delle mie avventurose “STORIE DI FOGNA”. Quale posto migliore se non il mio blog?
Pronti? Tappatevi il naso e via (nelle fogne, si sa, non c’è proprio un buon odore).

Questo racconto è strettamente autobiografico. Sono io, sono così. La differenza è che, adesso, ho sempre sonno. E ho smesso di fumare.

Il posto migliore dove leggere un libro

Appartengo a quella categoria di persone che comincia a carburare nel tardo pomeriggio, per raggiungere lʼapice della produttività a notte fonda.
Tuttavia, capita che le circostanze mi impongano di svegliarmi di buonʼora. Quando malauguratamente succede, per tutta la giornata vengo accompagnata da un violento senso di nausea che mi impedisce di mangiare e che mi rende le gambe molli e il cervello addormentato. Il tutto si risolve quando crollo addormentata alle dieci di sera.
Sicuramente starete pensando che non sto dicendo niente di nuovo, che al mondo ci sono milioni di persone che arrancano tra le coperte, che amano dormire e che sprecano le mattinate imbambolandosi di sbadigli e caffè.
Benissimo.
Il punto è che io proprio non ci riesco. Potete capirmi? Quando punto la sveglia, gesto che mi risulta contro natura e addirittura doloroso, so già che la suoneria non sarà in grado di strapparmi dalle braccia di Morfeo, oppure che la spegnerò io stessa senza neanche accorgermene, oppure che la posticiperò di dieci minuti in dieci minuti, fin quando non sarò irrimediabilmente in ritardo.
Assonnata, imbestialita e in ritardo.
Non fraintendete. Amo la puntualità.
I miei amici sono a conoscenza del fatto che concedo loro al massimo quindici minuti -che io chiamo “quarto dʼora di tolleranza”- , trascorsi i quali disdico di mia iniziativa lʼappuntamento e me ne torno a casa.
Allo stesso modo, sanno che chiedermi un incontro nelle ore che precedono il mezzogiorno equivarrebbe ad avere a che fare con uno zombie ritardatario e di malumore.
Sanno che mi metterebbero in agitazione a partire dalla sera prima. Avrei tanta paura di non svegliarmi in tempo che non riuscirei a chiudere occhio.
Sono miei amici e certe cattiverie non me le fanno.
E non credete che non ci abbia provato. Ai tempi dellʼuniversità, quando arrivare in ritardo significava venire automaticamente esclusi dalla lista dʼesame e dover attendere fino allʼappello successivo, le mie serate si svolgevano allʼinsegna dellʼorganizzazione. Maniacale.
Tutto veniva accuratamente pianificato affinché lʼindomani avessi da svolgere solo qualche compito elementare, come spruzzarmi un poʼ dʼacqua gelida sugli occhi gonfi e infilarmi le scarpe correttamente.
Testi, appunti e libretto universitario venivano ordinatamente riposti nello zaino, appoggiato accanto alla porta dʼentrata e reso più visibile da un foglietto giallo, sul quale erano annotate le ultime cose da controllare prima di uscire.
Unʼattenta analisi delle previsioni meteorologiche mi aiutava a scegliere, con un buon margine di probabilità, quali capi dʼabbigliamento sarebbero stati più adatti alla temperatura e allʼumidità dellʼaria. Tuttavia, venivano preparate diverse opzioni poichè, si sa, gli imprevisti capitano sempre quando si è di fretta. La sedia della mia scrivania ospitava quindi un buon numero di vestiti, accuratamente abbinati e piegati in modo tale da “facilitarne lʼinserimento”. Mutande e calzini in cima alla pila, camicia già abbottonata e scarpe possibilmente senza lacci.
Pensate che esageri? Forse non mi avete mai visto alle prese con una fila interminabile di bottoni, quando con la testa sono ancora in piena fase REM.
Ma la mia serata non era ancora finita. In cucina, predisponevo tutto il necessario per la colazione: tovaglietta, biscotti e tazza con la zolletta. Non cʼè niente di peggio che bere il caffè amaro perché non ci si ricorda dove si tiene lo zucchero.
Infine, si passava alla cura personale.
Sono in una condizione in cui farmi la doccia appena sveglia è unʼutopia da film americani.
Quelli, per intendersi, dove le famiglie si destano sorridendo e volendosi bene alle primi luci dellʼalba, e si fiondano in bagno fischiettando, tra nuvole di vapore e buonumore. Non fa per me.
Potrei recitare, al massimo, la parte del cattivo.
Rassegnata alla doccia serale, controllavo inoltre quantità dentifricio e medicinali da avere sempre con sè in caso di brusco risveglio. Il mal di testa è sempre in agguato.
Infine, si passava allʼallestimento dellʼapparato sveglie che venivano puntate con almeno due ore di anticipo rispetto allʼuscita da casa. Tre orari diversi. Per sicurezza.
In genere, a svegliarmi era la mia coinquilina inferocita.
A quel punto, gli occhi erano aperti. Bisognava solamente riprendere il controllo delle funzioni motorie, uscire dalle lenzuola calde e avvolgenti e tuffare la faccia nel lavandino. Il resto era pronto.Tutto perfettamente programmato direte voi.
Ma. Cʼè sempre un “ma”.
Dimenticate che le donne si truccano. Vi risparmio i particolari dei pietosi tentativi, riassumendo in termini di tempo: unʼora. Unʼora del mio prezioso tempo mattutino era dedicata ad aprire e sgonfiare gli occhi e a cercare di camuffare lʼincarnato livido.
Dopo lʼesame, miracolosamente gestito grazie a caffeina e sigarette, generalmente svenivo a letto, recuperando le forze e svegliandomi di soprassalto a notte fonda, chiedendomi che cosa ci facessi a letto vestita e con gli occhiali da vista ancora inforcati.

In quei momenti, il mondo era mio. Girovagavo per la casa silenziosa, sbocconcellando pigramente qualcosa o dando unʼocchiata alle edizioni notturne dei telegiornali, pregustando lʼattesa di quello che consideravo -e considero tuttʼora- uno dei massimi
piaceri di una notte dʼinverno.
Riempivo la vasca, con acqua tanto bollente da far quasi male alla pelle e mi immergevo poco alla volta nella schiuma profumata, chiudendo gli occhi e lasciando rilassare i muscoli contratti.
Poi prendevo un libro e non smettevo di leggere fino a quando lʼacqua diventava tiepida e il mondo là fuori cominciava a risvegliarsi.