La mia casetta

Quando ero piccola, ve l’ho già raccontato, ero molto molto timida.
Poi è arrivato Pallino (il mio cagnolino bianco che mi ha insegnato a comportarmi come un cane) e mi ha cambiata, naturalmente in meglio.

Se ripenso adesso a quel periodo, credo in realtà che tutti abbiano male interpretato quella timidezza. Se mi nascondevo quando arrivavano ospiti, era semplicemente perché non avevo voglia di parlare con loro, di farmi stritolare e di rispondere alle solite domande stupide che si fanno ai bambini.

“Vuoi più bene alla mamma o al papà?”
“Uguale. A tutti e due voglio bene nello stesso identico modo”
“Non è possibile, a chi dei due vuoi più bene?”
“Ti ho detto che voglio bene UGUALE a entrambi, maledizione”

“Ci credi a Babbo Natale?”
“Guarda, ci avevo sempre creduto fino a questo momento. Se me lo chiedi, vuol dire che forse non esiste? Grazie eh.”

“Giulia, ma perché tieni sempre la testa bassa? Giuliaaaa?? GIULIAAA! Guardate TUTTI la Giulia che è timida”

“Come va all’asilo, Giulia?”
“Odio andare all’asilo. Un trauma ogni giorno. Ho paura che non vengano mai più a riprendermi da quando mia mamma è arrivata in ritardo alla fermata del pulmino ed io mi sono detta che mi sarebbe successa la stessa cosa che era successa a Giovanni M.* che avevano riportato all’asilo finché sua mamma non si era ricordata di lui”
(*Giovanni diceva che ero la più bella dell’asilo perché avevo i codini)

E via dicendo.
Insomma, quando c’era gente a casa mia, mi giravano le balle non poco.
Ecco perché mi nascondevo, cercavo di sparire e continuavo a farmi gli affari miei.
Che tenera, già allora odiavo la gente.

A un certo punto, probabilmente per assecondare quella tendenza, mio papà (che all’epoca lavorava per una compagnia che aveva a che fare con i GIOCATTOLI…e io non mi ricordo niente, maledizione!) decise di portarmi a casa il regalo della vita.
L’evoluzione delle capanne di lenzuola, dei fortini fatti con i cuscini del divano: una casetta di tessuto!
Una specie di struttura di ferro (come quella delle tende da campeggio) ricoperta da un telo con disegnate finestre, piante d’appartamento e gatti bianchi addormentati.

Come tutti, non ricordo molto bene la mia vita da “quattrenne” (si dice?) a parte qualche tremendo e traumatico episodio legato all’asilo. Però quella casetta…oh, quella casetta eccome se me la ricordo!
Era disordinata e piena di tesori e profumava di scoperte e giochi meravigliosi.
Potevo stare dentro lì a pensare, a guardare libri illustrati o disegnare distesa sui cuscini oppure potevo invitare la Martina (mia sorella) e Michele (mio cugino) a giocare con me, anche se quello era il MIO regno che, volendo, potevo chiudere con una porticina -sempre di stoffa- che si allacciava con un nastrino rosso. Sul retro della mia casina, poi, c’era disegnata una finestra che lasciava intravedere l’interno di un salotto. Ricordo perfettamente che trovavo quel disegno un po’ stupido: “Se entri, si vede che non è vero!”
Anzi: “Se entii, si vede che non è ve’ooo” (potrei dire che da piccola avevo la “r” moscia, la verità è che non ce l’avevo proprio).
Ma mi piaceva lo stesso. Era il mio salotto finto.

Poi un giorno mi hanno detto che, durante un temporale, il vento si era portato via la mia casetta. E naturalmente ci ho creduto.
Ricordo esattamente quel momento: probabilmente i miei genitori si aspettavano che piantassi un casino di lacrime e urla. E invece no: mi sono immaginata la mia casetta tutta sbilenca che volava tra i fulmini e le nuvole scure. Penso di essere stata anche un po’ affascinata da quell’immagine.


Non ho pianto. Ma non ho dimenticato quel bruttissimo scherzo del vento.
E ancora oggi, quando soffia forte, sono nervosa come un cane prima di un terremoto.

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