La poetica emozione di Villa De Faveri

Alcuni libri non ti prendono da subito.
A me è successo con “Il Gattopardo”: la prima volta che ci ho provato, l’ho lasciato sul comodino a metà. Lo detestavo, non riuscivo ad andare avanti. Forse perché era nella lista delle letture estive che la prof. del ginnasio aveva imposto a me e ai miei compagni? Chissà.
Quando gli ho dato una seconda possibilità, qualche anno dopo, non solo ho l’ho adorato, ma l’ho anche inserito tra i libri del mio scaffale d’oro.
Con tante scuse al Principe Tomasi di Lampedusa.

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Certe cose devono accadere quando è giusto che accadano.
Che detta così, lo riconosco, sembra una massima senza senso dei baci Perugina.
Quello che voglio dire è che c’è un momento giusto per ogni cosa.
Eccomi di nuovo con i cartigli dei cioccolatini.
Beh, insomma, capitemi.
Vi è mai successo di provare a fare qualcosa, di trovare un sacco di ostacoli, di lasciar perdere, di riprovarci dopo giorni, mesi, anni, e di riuscirci senza difficoltà alcuna?

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È praticamente la storia della mia vita.
Su una storia che mi interessava e che nessuno voleva raccontarmi quando ero bambina (perché non era il momento giusto), ho scritto un libro da adulta.
Ho rincorso per anni una certa intervista di cui vi ho parlato poco tempo fa e, alla fine, ho trovato la videocassetta quando avevo smesso di cercarla.
La stessa identica cosa mi è successa con un libro introvabile che mi è arrivato a sorpresa da un donatore anonimo (all’epoca anonimo, adesso so chi è!) quando ormai avevo perso qualsiasi speranza di trovarlo.
E poi, solo per farvi un altro esempio eclatante delle centinaia che mi vengono in mente, ho abbandonato il mio progetto dell’albero genealogico per anni per poi riprenderlo con foga quando se ne è presentata l’occasione. E indovinate? Sì, ho trovato quasi tutte le risposte alle domande difficili che mi ero fatta all’inizio della mia impresa.

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Questo potrebbe voler dire due cose:
Che quando smetto di rompere le balle, il mondo -sfinito- decide di accontentarmi giusto per non correre il rischio che io ricominci;
Che, come vi ho detto, bisogna attendere che tutto si sistemi al posto giusto. E, prima o poi, vi assicuro che succede (e se nel mezzo, si rompono un po’ le balle forse succede anche prima.

Malgrado la maggior parte di voi -ne sono certa- abbia annuito con vigore alla lettura della prima ipotesi, noi -e con noi intendo IO- che siamo romantici e crediamo nei segni del destino, vogliamo propendere per la seconda opzione.
Provarci SEMPRE, tanto per sicurezza. Se poi non funziona, funzionerà.
Siamo tutti d’accordo? Bene.

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Che premessona.
E preparatevi, perché non sarà l’unica. Devo spiegarvi altre cose, ma adesso prendete pure un bel respiro. Siete entrati nel mood di quello che vi sto per raccontare.
Andiamo avanti.

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Quando ero piccola, avevo anche altri passatempi oltre a quello di insistere con i miei genitori affinché mi raccontassero gli efferati omicidi avvenuti nella mia città.
Tra le altre cose, appena finito di costruire I SOLIDI DI EDUCAZIONE TECNICA (lo scrivo in stampatello perché era una cosa che non dicevo dal 1993), andavo in camera di mia sorella Martina e spiare tutto quello che c’era nei suoi cassetti.
In modo particolare, mi soffermavo a sbavare sulle fotografie dei suoi Capodanni. Eh sì, perché io mica facevo niente a Capodanno. Mi mandavano a dormire dalla nonna Leda e, assieme, aspettavamo la mezzanotte in compagnia delle trasmissioni di Fabrizio Frizzi.
Che se ci penso bene, è tutto quello che chiedo a un Capodanno odierno, se proprio devo aspettare ‘sta mezzanotte che non arriva mai.
Ma non divaghiamo.
Io, una volta, VOLEVO ANDARE ALLE FESTE.
Volevo mettermi i vestiti svasati di velluto delle ragazze di Non è la Rai e le bebè di vernice col tacco. Ma, più di tutto, volevo andare a Villa De Faveri, dove la maggior parte di queste feste veniva celebrata.

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Villa De Faveri.
Mitica magione del centro cittadino sandonatese, sempre avvolta da edere antiche e da un pulviscolo misterioso e affascinante lasciato dagli anni e dagli avvenimenti.
Almeno, io me la ricordo così: ci passavo di fronte e mi mettevo a guardare dalle inferriate, quelle che adesso danno sulla zona pedonale ma che una volta davano su un senso unico.
La nonna Leda mi aveva raccontato che, durante la seconda guerra mondiale, a Villa De Faveri ci facevano le feste i tedeschi. E che poi, le sandonatesi che a quelle feste ci erano andate, le avevano rapate a zero sul Ponte.
Dicevano anche che più di metà villa fosse disabitata e che, in quei saloni, i ragazzi giocassero a calcio.
Per non parlare del giardino. L’aggettivo più moderato utilizzato da chi l’aveva visto di persona era: STERMINATO.

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Insomma, c’era tutto quello che serviva alla sottoscritta per iniziare a sviluppare una concreta ossessione.
Ci volevo andare a tutti i costi. E non c’era proprio modo di farmi portare a una di quelle feste di capodanno. Il massimo che mi era concesso, era rimanere nella camera da letto di mia sorella mentre lei e le sue amiche si preparavano.
Dimenticavo: a casa dell’altra nonna, la nonna Isetta, c’era addirittura un quadro che raffigurava la villa. Chissà se c’è ancora.
Una specie di luogo mitico, storico, magico, inaccessibile, simbolico.
Per me e per tutti i sandonatesi. Villa De Faveri era, è, uno dei monumenti della città.

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Passano gli anni, e per un po’ mi dimentico della villa.
Non so qualcuno ci viva davvero e nella mia testa, la grande casa diventa un luogo disabitato.
Se ne sta lì, da sola, a riempirsi di polvere. L’edera cresce e la ruggine del cancello si indurisce, rendendo il luogo ancora più remoto.
Io cresco, inizio a andare a feste di Capodanno in case normali e ben presto me ne stufo, rimpiangendo il conto alla rovescia di Fabrizio Frizzi.
Continuo a passare di fronte alla villa e, convinta che sia disabitata, ogni volta scuoto la testa: sta andando in rovina, dentro ci saranno ragnatele, procioni, fantasmi e qualche vagabondo e io non la vedrò mai.
Me la immagino come una specie di comune occupata da personaggi ambigui, che continuano a vivere nel buio, tra polvere e mobili tarlati.
A un certo punto, mi sveglierò e non ci sarà più. Si sarà consumata come un sogno la mattina, oppure qualcuno l’avrà demolita e al suo posto verrà costruita una banca. O un bar. O una rotonda. Più grande di quella che c’è già.
Povera Villa De Faveri. Dimenticata.

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Passando di sera, nel silenzio, mi sembra quasi di sentire una musica lontana e di vedere ombre agitarsi dietro alle finestre. Siccome notoriamente non sono una persona coraggiosa, quando si parla di fantasmi e cose del genere, ben presto inizio a non sollevare più lo sguardo verso le terrazze della villa.
E anch’io mi dimentico di lei.
Non la vedrai mai, mettitela via.
[in realtà, parte della famiglia De Faveri ha continuato a vivere nella villa fino al 2011. Il piano superiore, invece, è stato chiuso nel 1985 in una specie di capsula del tempo. La maggior parte delle foto che vedete qui è stata scattata proprio nelle stanze di quel piano congelato trent’anni fa.]

Ed eccoci, finalmente, al fulcro di questo post.
Respirate a fondo di nuovo perché il cerchio sta per chiudersi.
È il 2013, ho appena lasciato Berlino e mi sto preparando per l’esperienza in Nuova Zelanda.

Sto passeggiando per il centro di San Donà e vedo un volantino appeso sulla cancellata della villa. Non mi ricordo le parole esatte ma si parla di un evento nel giardino.
Finalmente la villa viene riconsegnata alla città…più o meno si dice così.
Ovviamente non perdo l’occasione, partecipo alla serata e ho quindi modo di visitare parte del giardino e di ammirare da vicino i particolari che per tanti anni ho guardato tra le sbarre arrugginite. Nulla dell’interno, però.
Pare che Luigi, uno dei De Faveri che aveva abitato nella villa fino a pochi anni prima e che poi se ne era andato (nonché il fratello di quello che organizzava le feste di Capodanno), abbia deciso di sistemare tutto. Non si sa bene come.
Intanto si comincia da questo evento, poi si vedrà.
Poi si vedrà.

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Passa un altro anno, io torno dalla Nuova Zelanda e, di nuovo, vado a passeggiare per il centro di San Donà. Questa volta con mia sorella che, a un certo punto, mi chiede: “Ti dispiace accompagnarmi a salutare Gigio?”
“Gigio?”
“Sì, Gigio De Faveri. A proposito, sai che adesso si è trasferito nella villa e la sta mettendo a posto un po’ alla volta?”

Ed è così che finalmente entro.
Passeggio per il piano nobile, ormai quasi del tutto restaurato, esploro il giardino in compagnia di una gattina nera di nome Pupilla e poi, visito il famoso piano disabitato da più di trent’anni.
Sembra davvero tutto congelato nel tempo.
Non so spiegare l’effetto strano di guardare dall’interno una cosa che, per tutta la vita, è stata vista da lontano.
Entrare nelle terrazze e guardare giù, quando quelle terrazze le hai osservate sempre dal basso, intuendone appena i particolari, affacciarsi alle finestre e buttare l’occhio verso il cancello, ricordandoti di quando eri bambina e schiacciavi il naso sulle sbarre…beh, che strana sensazione.

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Il piano di mezzo, come vi dicevo, è chiuso da trent’anni e tutto è rimasto esattamente come l’hanno lasciato in quel lontano 1985.
Le fotografie sono ancora appoggiate sui comò, nelle credenze c’è qualche pacco di pasta e ci sono libri ovunque. C’è addirittura una pistola.

“Poi mia zia mi ha lasciato questo sacchetto pieno di pietre dure colorate e mi ha detto che, se si mettono nel posto giusto, si possono vedere le fontane della villa” mi racconta Gigio, facendomi venire gli occhi lucidi dall’emozione.
Mi spiega anche che la casa è stata costruita nel 1850 e che poi, a causa dei danni causati dalla Grande Guerra, è stata ricostruita tale e quale nel 1927.

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Passo il dito sulla polvere, sfoglio pagine vecchie piene di fotografie e ricordi, mi riempio gli occhi di tutti i particolari che per anni ho solo immaginato e che finalmente, adesso, sono reali. Vorrei avere a disposizione mesi e anni per toccare e scoprire tutto, per vedere se ci sono stanze nascoste e passaggi segreti, per catalogare i cimeli e i reperti, risalire al loro proprietario. Vorrei risolvere il mistero delle pietre colorate ed assistere allo spettacolo di queste fantomatiche fontane. Vorrei vedere davanti agli occhi, come in un documentario, tutto quello che è successo tra queste mura.

Bastava avere pazienza e aspettare che tutte le cose si sistemassero al posto giusto.
Con un altro po’ di pazienza, sono sicura che Villa De Faveri svelerà tutti i suoi remoti segreti.
Adesso si sta solo rifacendo il trucco.

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