La storia di Amalia e Silvia

Piccola premessa: vi ho parlato di questa storia molti mesi fa. Vi ho detto che la stavo scrivendo e poi, una volta finita, vi ho detto che l’avrei mandata a qualche giornale italiano per vederla pubblicata e per fare una specie di “regalo” ad Amalia e ai parenti di Silvia, le war brides protagoniste di questa storia.
Ve lo ricordate? Bene, cancellate tutto perché non ha funzionato (la storia l’ho scritta, certo, ma non sono stata capace di farla pubblicare).
Io -notoriamente- ho poca pazienza e la storia di Amalia e Silvia sta aspettando di essere raccontata da settant’anni.

Direi che non c’è altro tempo da perdere.

Siamo a Firenze e la guerra è finita da poco.
La colonna sonora per questo articolo è “Non dimenticar le mie parole”. Schiacciate play e iniziate a leggere.

Auckland, novembre 2013

Mi trovo in Nuova Zelanda solo da qualche giorno e sono ancora in preda agli sbalzi di sonno e veglia del mal di fuso quando, per puro caso, sento parlare delle war brides. Mia sorella Martina, insegnante di italiano all’associazione Dante Alighieri di Auckland, conoscendo la mia passione per le storie che profumano di carta ingiallita e viaggi rocamboleschi, mi mette in contatto con David, il figlio di Amalia di una delle poche “spose di guerra” ancora in vita.

Incontro la signora Amalia in un pomeriggio di sole, nella sua casa piena di fotografie e ricordi di un’Italia in bianco e nero: lei mi offre uva bianca e caffè e inizia a raccontarmi la sua avventura. Non parla più l’italiano, ma il suo inglese non riesce a scordarsi di un inconfondibile accento fiorentino.

“Sono stata educata in un collegio religioso dove insegnava una mia zia suora” mi racconta Amalia “Ero un po’ viziata e speravo che la zia avesse qualche preferenza per me rispetto alle altre ragazze…invece non c’era niente da fare!”
Ride, ricordando la sua vita protetta nell’istituto di Vigevano “Poi è scoppiata la guerra e ho conosciuto Bill, il mio soldato della Nuova Zelanda”

Quello che principalmente mi stupisce, ascoltando la storia di Amalia e quella di decine di altre giovani donne come lei, è rendermi conto di non sapere quasi nulla dell’argomento. Nessuno, a scuola, mi ha raccontato che l’esercito britannico non era composto solo da inglesi ma anche da australiani, neozelandesi e maori. Anzi, per dire la verità, la Nuova Zelanda viene sempre sottovalutata dai libri di storia, tanto che si finisce per ignorare addirittura dove si trovi precisamente. Insomma, per farla breve e non senza una certa vergogna, lo ammetto: io neanche sapevo che la Nuova Zelanda avesse partecipato alla Seconda Guerra Mondiale. Pensavo che la lontananza avesse rappresentato un ostacolo insormontabile per quei tempi e che, alla fine, Re Giorgio VI si fosse accontentato dei soldati che aveva a disposizione nel suo regno.

Silvia and AmaliaSilvia e Amalia (terza e quarta da sinistra) posano con due amiche davanti a una macchina dell’esercito neozelandese

Mi sbagliavo, naturalmente.

Non solo la Nuova Zelanda lascia partire i propri soldati per una guerra lontana, ma rappresenta anche il paese che ­in proporzione­ ha subito la perdita di popolazione più massiccia durante il conflitto.
Nel 2014, neanche a farlo apposta, si celebra il settantesimo anniversario di quelle battaglie che, quando vengono nominate in Italia o in Nuova Zelanda, provocano ancora, e per motivi diversi, lo stesso sgomento: sto parlando dei tremendi combattimenti di Monte Cassino che culminarono con i bombardamenti aerei che distrussero l’Abbazia e la cittadina e che provocarono la morte di migliaia tra civili italiani e soldati del Commonwealth, in un’operazione che venne ben presto definita un errore strategico e frettoloso.

Alcuni di questi giovani restano tombe senza nome.
Altri, quelli che sopravvivono, cercano di dare un senso di normalità alla guerra e si inseriscono nella vita delle comunità con le quali vengono a contatto.
Ed è a quel punto che l’esistenza di tante ragazze italiane cambia.
Giovani provenienti da tutta la penisola, al termine del conflitto, decidono di tentare un salto nel buio e di vivere l’avventura di un viaggio in capo al mondo.
Da sole e senza sapere nulla del paese da cui provengono i loro soldati.

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Gruppo di war brides in una foto apparsa in un quotidiano neozelandese

“Non sapevo neanche dove si trovasse la Nuova Zelanda” confessa Amalia “Non parlavo inglese e comunicavo con Bill solo perché lui, pur di conquistarmi e risultare simpatico a mia mamma, aveva imparato un po’ di italiano. Se ero innamorata? Non ne sono sicura: ero felice, questo è certo. Avevamo tanta voglia di vivere e di sbarazzarci di tutte le privazioni a cui eravamo state costrette durante la guerra. Avevo un altro amico” non lo chiama fidanzato, ma sorride ancora al pensiero di quel ragazzo “che purtroppo rimase ucciso in Russia. Io non vedevo l’ora di sposarmi e di dimenticare quei brutti anni”

Se, da un lato, Amalia è ingenua e si affida totalmente alle parole di Bill, la sua amica Silvia è di tutt’altro stampo. Durante la guerra, lavora al Grand Hotel Baglioni di Firenze, il luogo che ospita il club degli ufficiali neozelandesi, impara l’inglese e inizia a familiarizzare con quella cultura che le sembra tanto lontana. È proprio qui che, grazie alla complicità del fratello pittore Luigi, conosce Louis. Ed è amore a prima vista.

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“C’era questa bellissima ragazza con i capelli scuri e lui non riusciva a staccarle gli occhi di dosso” raccontano Angela e Jon, i figli di Silvia “Se la voleva sposare a tutti i costi”

A questo punto, le promesse spose si separano dai loro futuri mariti: Louis e Bill tornano al loro paese per preparare i documenti che permetteranno alle ragazze di trasferirsi per sempre in questa nuova terra sconosciuta. Poi, alla fine del 1946, arriva la conferma. Si fa sul serio.
A settembre dello stesso anno, le due amiche salutano le loro famiglie e, da Genova, prendono la nave Rangitata: non solo hanno di fronte a loro un viaggio che durerà più di due mesi, ma non sanno quando e se rivedranno i loro cari.

Sono assieme, però, e si fanno forza a vicenda.
La nave salpa dal capoluogo ligure e porta verso l’emisfero australe un bel gruppetto di war brides, le cosiddette spose di guerra.

Chissà che cosa si saranno dette sulla nave quelle ragazze italiane.
Molte, probabilmente, erano spaventate e confidavano in quel viaggio per cominciare una nuova vita, diversa, dopo le ristrettezze della guerra. Altre ancora, forse dubitavano di quella scelta e si chiedevano se fosse troppo tardi per cambiare idea. Tutte, erano tristi per aver lasciato la loro famiglia. Chissà quante hanno pianto in silenzio, chiuse nella loro cabina o sul ponte della nave a guardare l’oceano che sembrava non avere fine.

“Silvia è stata un’ottima amica per me” mi confida Amalia “Parlava bene l’inglese e durante il viaggio faceva da interprete per noi che non capivamo niente. Sono felice di averla conosciuta e di averla avuta accanto in quella lunghissima traversata. Siamo sempre rimaste in contatto, io e lei. Una delle mie figlie si chiama Silvia, proprio per ricordare questa amicizia profonda che ci ha legato e che ci ha fatto saltare assieme nel buio di questo destino tanto lontano da casa”

Il viaggio è interminabile e per niente facile: molte delle “war brides” soffrono il mal di mare. Inoltre, la nave deve necessariamente effettuare delle tappe e, molto spesso, l’attesa tra una partenza e l’altra è quasi insostenibile.
“Ci siamo fermate per un periodo lunghissimo in Egitto” racconta Amalia “Ed eravamo molto spaventate. C’era molta povertà e avevamo paura che ci derubassero. Per fortuna eravamo sempre assieme”

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Silvia e Amalia (terza e quarta da destra) posano con le altre war brides sul ponte della Rangitata

Screen Shot 2014-06-25 at 6.43.14 PMLa lunga traversata, finalmente, termina il 22 ottobre. La nave approda a Wellington, la capitale della Nuova Zelanda, e tutti i fidanzati sono sul molo ad aspettare le loro future spose. Immaginare la scena si riduce quasi a uno stereotipo: le giovani italiane, scarmigliate e stanche, corrono vociando incontro ai loro kiwi. Non si vedono da mesi, da anni, e finalmente possono coronare il loro sogno d’amore. Possiamo quasi vedere i loro volti accesi dalla sensazione e dall’urgenza che hanno provato durante le loro ultime ore di viaggio che, si sa, sono quelle che passano sempre più lentamente anche se alle spalle si ha una traversata che è durata mesi.

“La mamma era molto stupita. Tutto le sembrava così selvaggio e old fashioned…dopo il matrimonio, celebrato in una piccola chiesa cattolica in presenza dei soli parenti dello sposo, iniziò a soffrire di nostalgia. Scriveva lunghe lettere nelle quali cercava comunque di dimostrare un’attitudine positiva e ottimista. Era felice perché era innamorata. Cercava di non pensare troppo alla famiglia lasciata in Italia” raccontano Angela e Jon.
Anche Amalia non riusciva ad adattarsi completamente al nuovo paese: “Vivevo con la famiglia di mio marito. Erano gentili con me ma mi sentivo sperduta. Inizialmente non parlavo inglese, non riuscivo a comunicare e tutto mi sembrava molto primitivo. Sognavo il cibo italiano e il caffè e mia mamma, nelle sue lettere, mi diceva di essere molto preoccupata per me. Io però cercavo di rassicurarla”

Questa è una storia di amicizia e di coraggio.

Hanno avuto figli, quelle due ragazze fiorentine, e li hanno cresciuti in Nuova Zelanda, insegnando sempre loro l’amore per l’Italia. Un amore folle reso forse un po’ più amaro dalla nostalgia. Lo dimostra il fatto che i loro figli, oggi, studiano l’italiano e sono affascinati da una cultura che hanno imparato solo di riflesso, dagli occhi pieni di ricordi delle loro mamme.

Oggi parliamo di ragazzi temerari che lasciano la loro casa per vivere e lavorare all’estero, li ammiriamo e troppo spesso li dipingiamo come vittime costrette ad abbandonare il nido sicuro per tentare un salto nel vuoto.
Senza falsi moralismi, noi che pensiamo di essere dei pionieri e che ci sentiamo degli eroi per aver preso un aereo e per dover sentire in Skype la mamma e il papà, in realtà…che cosa ne sappiamo?

Le spose di guerra sono partite da sole, lasciandosi alle spalle gli anni tremendi della guerra, hanno seguito un uomo che conoscevano a malapena. Hanno intrapreso un viaggio estenuante e pericoloso e sono sbarcate in un paese ignoto, senza conoscerne la lingua, la cultura e le abitudini.
Alcune di loro non hanno mai più rivisto i genitori, mancati in attesa del loro ritorno.

No, non voglio cadere nell’errore di dire che si stava meglio quando si stava peggio, che queste donne saltavano i fossi per lungo e altre ovvietà del genere.
Da giovane emigrata consapevole solo in parte delle difficoltà derivanti dall’essere lontana da casa, tuttavia, non posso che ammirare la loro sfrontata incoscienza.

War Brides Group Photo on ShipAmalia (quarta ragazza “appesa” alle corde) e Silvia (sono incerta tra la seconda in piedi e la quarta accucciata)