Mississippi – “Altre voci, altre stanze” (Truman Capote)

Miss Wisteria gli era così vicina che sentiva l’odore rancido del suo abito di seta molle d’acqua e spiegazzato. I ricci si erano sfatti, il piccolo diadema era scivolato per traverso, la sciarpa gialla lasciava colare sul pavimento il suo colore. “Piccolo,” ella disse, facendo scorrere il raggio della lampada sopra le pareti cadenti dove la sua figuretta si confondeva con le ombre delle cose in fuga. “Piccolo,” disse, e la rassegnazione della sua voce ne intensificava il pathos. Ma Joel non osò mostrarsi, perché non poteva darle quello che ella voleva: il suo amore era sotto terra, frantumato e immobile, con fiori appassiti al posto degli occhi, e muschio sulle labbra, il suo amore era lontano a nutrirsi di pioggia, e i gigli fiorivano sulla sua rovina. Arretrando, ella salì le scale, e Joel, che udiva i suoi passi al piano superiore, mentre, nel suo bisogno di lui, lo andava cercando nella giungla delle stanze, sentì per se stesso un disprezzo feroce: che cos’era il suo terrore in confronto a quello di Miss Wisteria? Egli aveva una stanza, aveva un letto, in qualunque momento avrebbe potuto fuggire di lì, raggiungerli. Ma per Miss Wisteria, che piangeva perché i bambini sarebbero diventati grandi, ci sarebbe sempre stato quel viaggio attraverso le stanze morte, finché in un giorno solitario ella avrebbe trovato colei che sta nascosta sorridente con il coltello.

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