Io lavoro con orari flessibili.
Che cosa significa? Purché io assicuri la mia presenza dalle 11 alle 17 (“cuore” della giornata in cui tutti si aspettano di trovarti per chiederti di scrivere delle cose) e stia alla scrivania a macinare articoli per circa 8 ore al giorno, posso fare un po’ quello che mi pare.
Il che, oggettivamente, è una figata.
Ti svegli prima del gallo e alle 8 sei già tutto bello scattante? Bene, allora sei libero di andartene quando fuori c’è il sole. Sei come me e preferiresti toglierti tutti i denti del giudizio piuttosto che “fare delle cose che denotano professionalità” durante le prime ore del giorno? Ancora meglio: sei libero di andare in ufficio alle 11 (Signore e signori! Questo è progresso!) e di tornare a casa quando l’unico rimasto oltre a te è il custode del palazzo.
Questa, per me, è civiltà. Non tutte le persone sono mattiniere – anzi, io di mattina non sono neanche una persona – ed è giusto (e anche più sensato per un’azienda) che ognuno lavori quando si sente più produttivo e meno incline al coma irreversibile. Quando tutti potremo lavorare da casa, quella sì che sarà una vera rivoluzione copernicana, ma per il momento ci accontentiamo.
Dunque, dicevo, non sto neanche a precisare che io sono una di quelle che arrivano in ufficio allo scoccare dell’ultimo minuto a disposizione. Ma non è sempre stato così.
All’inizio, avevo dei propositi. Degli ideali. Delle speranze.
Ma certo, lo so che posso arrivare alle 11. Tuttavia, cercherò di essere qui massimo alle 9.30 perché voglio godermi il pomeriggio.
Ma certo, lo so che posso fare una pausa pranzo breve perché c’è libertà. Tuttavia, cercherò di prendermi almeno un’ora perché il benessere è importante e non ho intenzione di mangiare alla scrivania.
Che cosa è cambiato da quelle prime prepotenti manifestazioni di ottimismo? Perché adesso arrivo in ufficio correndo e mangio il pranzo portato da casa senza neanche scaldarlo al microonde “altrimenti mi tocca tornare a casa alle 9 di sera”?
Semplice: se foste presenti in casa mia quando di mattina mi preparo per uscire, allora capireste tutto.
Io ho un problema: PERDO UN SACCO DI TEMPO.
Prima di tutto, vorrei precisare che senza la solida e rassicurante presenza del paziente Alessio, io non potrei in nessun modo avere un lavoro. Perché non mi sveglierei, prima di tutto. Perché non riuscirei a venire fuori dal letto. Perché, infine, potrei benissimo riaddormentarmi.
Il paziente Alessio non solo mi sveglia e mi trascina a forza fuori dalle lenzuola calde, ma siccome oltre ad essere paziente è anche saggio, mi obbliga ogni sera a prepararmi la moka del caffè e la tovaglietta della colazione con le gallette di riso già pronte per l’uso.
Inoltre, il paziente e saggio Alessio sa che di mattina non sono molto cordiale quindi fa in modo di uscire quando io ho appena finito di invocare “Caffè! Caffeeeeeee!”. Si assicura che tutto sia sotto controllo e mi lascia al mio destino.
Io, che dopo qualche minuto di sconforto e pessime idee (“chi è che ha bisogno di un lavoro, dopotutto? È più importante riposarsi. Chi mi ridarà indietro queste preziose ore di sonno?”) riesco finalmente a carburare, inizio la mia giornata e, come vi dicevo PERDO TEMPO.
Ecco cosa succede:
Capitolo I: la colazione
Mentre faccio colazione, leggo.
Ok, direte voi, tutti leggono, che novità.
No. Non è così semplice: io faccio delle vere e proprie rassegne stampa, commentando le notizie con messaggi vocali che invio al paziente Alessio, a mia sorella Martina, a mia mamma, all’ANSA, agli italiani nel mondo, facendo delle ricerche su internet e prendendo annotazioni di argomenti che vorrei approfondire (e che non approfondirò). La mia colazione, di conseguenza, dura quanto un pranzo di nozze.
Capitolo II: il giardinaggio
Compito successivo: dar da bere alle piante. Ho il pollice nero e delle piante grasse che si arrangiano, sono indipendenti, hanno lavoro e famiglia e non hanno assolutamente bisogno di me (anzi, forse mi temono e preferiscono che le lasci in pace). Non dovrei perderci troppo tempo, eppure… Noto un buchino sospetto su una foglia, faccio una ricerca su internet e improvviso un rimedio casalingo che prevede l’irrorazione con un decotto di aglio e aceto (da preparare fresco, sul momento, con ingredienti raccolti in Tibet). Se va male, sono anche capace di travasare dei teneri virgulti o di tentare invano di far crescere un avocado dal seme, con quella complicata struttura architettonica fatta di stuzzicadenti e bicchieri.
Capitolo III: radio, capelli, lezioni di trucco
Arriva l’ora del – espressione che detesto – TRUCCO E PARRUCCO. A quel punto sono ormai sveglia. Sempre poco cordiale ma sveglia. E terribilmente incline a perdere tempo.
Recentemente, ho scoperto la radio e un interesse inspiegabile per l’Onda Verde che ascolto sempre con attenzione e commento ad alta voce, esprimendo preoccupazione per quell’incidente all’uscita di Lambrate Sud, per la coda sul Raccordo Anulare e per i rallentamenti sull’autostrada del Sole.
Generalmente, poi, quando sono in bagno a truccarmi, ho delle infauste idee, tipo:
Vediamo un po’ qualche tutorial per un trucco veloce e naturale per sfoggiare un colorito roseo? Proviamo a usare questo blush che ho comprato e mai messo e che voglio provare proprio oggi per la prima volta? Ascoltiamo il consiglio di questa blogger che dice che per nascondere le occhiaie dobbiamo usare un… rossetto rosso?
E i capelli? Vediamo un po’ come viene questa doppia treccia francese? Proviamo un boccolo? Uno chignon? Ci facciamo dei colpi di sole?
Capitolo IV: la vestizione
-jeans e maglietta, sempre perfetta!
-ma dai, sempre vestita casual. Dai, con tutti quei bei vestitini che hai…
-no, vabè, con questo sembro incinta.
-no, vabè, con questo sembro Maria Goretti in via di beatificazione.
-no, vabè, un puttanone in autostrada.
-jeans e maglietta, sempre perfetta.
Capitolo V: il declino
A questo punto, ci sono quasi: sono truccata e vestita, non mi resta che uscire. Potrei anche arrivare ad un’ora decente.
E in quel momento che però… succede una di queste cose:
-decido di fare yoga (vestita e truccata? MA NO, mi cambio! E tiro anche fuori il tappetino)
-decido di fare delle foto (e di caricarle su Instagram e di accompagnarle con una citazione che devo necessariamente controllare e…)
-decido di suonare l’ukulele per dieci minuti e – perché no – di imparare anche una nuova canzone.
Ed è lì che mi rendo conto che è meglio se mi rassegno ad essere quella che spegne la luce in ufficio quando la sera è l’ultima ad andarsene. C’est la vie.
PS: le foto testimoniano la vita emancipata e indipendente delle mie piante.